A cosa serve leggere Pasternak? Perché mai dovremmo leggere Pasternak, oggi?
Oggi, che la poesia non si medita e non se ne parla se non quando è utile farlo per l’uscita di un libro sfoggiando abilità tecnico-interpretative, o forse solo per poter dire “sì, certo che l’ho letto, cara, vuoi che non abbia letto Pasternak?!”, allora mi chiedo: quando andremo oltre la parola poetica? Quando, per simpatia, per empatia, cominceremo ad applicare i principi e i valori poetici come motori d’estasi e d’illuminazione umana?
“Temi e variazioni” (Passigli Editore, 2018) nasconde qualcosa che va al di là della metrica, al di là della polisemia, al di là di ogni tentativo di chirurgia umana dissezionante. Lodevole l’introduzione di Paola Ferretti che ci prepara al testo pasternakiano analizzandone, con uno studio attento, focus e tensioni. D’altronde come interpretare un pensiero di un autore se non attraverso l’analisi e lo studio appassionato delle sue forme e strutture, dei suoi simboli e del suo esempio di vita?
Sintonizzandoci. Come?! Sintonizzandoci? E come? Col cuore.
“L’arte non mi è mai sembrata un oggetto o un aspetto della forma, ma piuttosto una parte misteriosa e nascosta del contenuto… Le opere d’arte parlano in tanti modi: con l’argomento, le tesi, le situazioni, i personaggi. Ma soprattutto parlano per la presenza dell’arte. La presenza dell’arte nelle pagine di Delitto e castigo sconvolge più del delitto di Raskòl’nikov… L’arte è una sorta di idea, di affermazione della vita, che per la sua sconfinata ampiezza non si può scomporre in singole parole. Ma, quando una briciola di questa forza entra nella composizione del più complesso organismo, l’ingrediente arte supera di per sé il significato di tutto il resto e diventa l’essenza, l’anima e il fondamento dell’intera rappresentazione.”
Pasternak era uno spirito inquieto, un poeta magico. A differenza di Majakovskij, era riluttante a ogni tipo di incasellamento e inquadramento; sognava una Russia non Russia, una Russia panica, una OltreRussia, come forse solo poteva essere nella cognizione sciamanica dei popoli della Siberia. Pasternak vagheggiava una nazione spirituale che travalicasse i confini divenendo universale. Di esempio per tutti.
Per raggiungere tale visione certo non poteva non essersi ispirato al pensiero dei grandi scrittori russi del passato: Puškin, Čechov e Dostoevskij. Il padre Leonid Pasternak, pittore, frequentava Tolstoj, ne illustrava i libri e Boris, che ebbe la fortuna di conoscere quel “genio incomparabile” nel salotto di casa, non poté non subirne carisma e forza.
Una sua contemporanea, Anna Achmatova, riconosceva nel giovane Boris il più grande della generazione russa di inizio Novecento. E così scrive di lui: “un poeta puro, per niente in sintonia con il regime, tutt’altro che tenero verso la letteratura impegnata. Dotato di una perenne fanciullezza, di quella prodigalità e acutezza delle stelle, era tutta la terra suo retaggio e con tutti la condivise. Un artista sommo, uno di quelli rari che vengono al mondo come eredi della propria terra, della sua natura, della sua storia e cultura”.
Ma cosa sentiva Pasternak? “Si sente per la prima volta, quel rombo./Domani io farò in modo che capiate/come il selciato si divelse dai portoni,/volando via su tracce ancora calde”. E non c’è nulla di più semplice e puro, gioioso e triste, fanciullesco e maturo, di questo. Sentire il portone della Storia, del Presente, divellersi e volare via, lungo le tracce ancora calde dell’Essere, della Poesia e del pulsare della Natura.
Pasternak tentò di superare il dolore dettato dall’incapacità di afferrare e mostrare a tutti, con chiarezza e poeticità, e non solo in madrepatria, l’inesplicabile al di là della linea degli alberi, delle montagne, dei raggi del sole che brillano su una neve leggera leggera colando giù da rami secchi e verdi. E quando il rumore dei bicchieri sui tavoli di legno offre segnali di risveglio, come fare? Il Nostro risponde con semplicità: “Il solo vegetare di ceste e di vimini/i coperchi dei pianoforti rianima.”
Egli è senza dubbio un sensitivo. “Mi abbarbico alla penna dell’Artefice/come una bolla acerba di denso inchiostro”. Egli vibra con il tutto, ammaliato e sofferente di non poter riuscire a fare di più e si chiede: basterà la poesia? Qual è il ruolo del poeta? Ma Pasternak, più che agire, sente quasi di essere agito, come fosse un pianoforte imperfetto, strumento di quell’invisibile che dietro le cose e le visioni di naturalezza cerca di farsi rivelare, e farsi riconoscere Natura d’Amore.
In “Temi e variazioni” (1923) ritroviamo pennellate di colore, infermità fisiche, spirituali, dettate da un tempo travolgente e barbaro in cui la Russia infuocava nei primi decenni del Novecento. Cercando di comporre poesia come musica su di un pianoforte, come gli aveva insegnato sinesteticamente il suo maestro, Scribian, Pasternak suonava la poesia. Senza tasti bianchi, senza tasti neri. Solo, coi diesis della mente, coi bemolle di una Russia senza più poeti, in cui “pochi noi siamo, forse solo tre”.
Quando morì, nel 1960, dopo aver dovuto rifiutare il Nobel per la Letteratura perché così gli imponeva il Regime, avrà sorriso guardando le pagine del suo amato “Zivago”
La stampa sovietica non gli dedicò che poche righe. Ma quante e quanto amore dedicheremo invece noi a lui?
Francesco De Luca