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Bret Harte, L’arrivo di Santa Claus a Simpson’s Bar

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«A son of a bitch» così Mark Twain descrisse Bret Harte nelle lettere a Henry James. Ce lo ricorda l’introduzione di Livio Crescenzi e Marta Viazzoli a una delle sue raccolta di racconti, L’arrivo di Santa Claus a Simpson’s Bar pubblicato quest’inverno da Mattioli 1885.

Nella Storia della Letteratura Americana ci sono stati molti autori che sono cresciuti in popolarità stabilendo i canoni della loro stessa letteratura, ma ben pochi sono stati in grado di delineare le regole della fiction americana e, nello specifico, riguardo la narrativa sulla Corsa all’Oro come fece Bret Harte.

Eppure, mentre i suoi personaggi, diventati poi specchio di un genere molto caro all’America, quello del Western, traevano ispirazione dalla cultura popolare più povera, il suo collega nonchè rivale, Mark Twain tuonava: «Harte era cattivo, distintamente cattivo; non aveva sentimenti e non aveva una coscienza”. La cosa sorprendente è che Twain era in buona compagnia; non si trattava esclusivamente di invidia personale, l’intera comunità letteraria accusava Harte di essere un’ alcolista, scialacquatore, e di aver abbandonato moglie e figli alla miseria. Accuse che, se leggete la sua biografia personale, non sono troppo lontane dalla realtà.

«Era un uomo senza patria; no non un uomo – uomo è una parola troppo forte; era un invertebrate senza patria. Non aveva più amore per il suo paese di quanto un’ostrica ne può avere per il letto del suo fiume: difatti neanche così tanta, e mi scuso con l’ostrica»

Oscillando tra fama e indigenza la distinzione tra la sua vita e quella dei suoi personaggi divenne con gli anni sempre più sottile. Forse, fu proprio la tendenza a essere sedotto dalla tossicità della vita che lo costrinse a raccontare nella maniera più realistica possibile le conseguenza di un umanità spezzata, cruda e triste. Con questo piccolo libro, Harte ci trasporta in qualche desolata e sperduta valle di Sacramento dove, siamo testimoni delle vite dell’ America Orientale più povera, durante gli ultimi decenni dell’Ottocento.  Fatta di figuri che vagano attraverso le pianure e le colline aride della California. Senza mancare però di descrivere, tra le anime dei vecchi cowboy annacquate dall’alcol, personaggi inusuali. Un bambino rabbuiato e malato che viene a conoscenza di una strana festività, il Natlae, un vecchio cercatore alcolizzato che trova conforto in un giovane femmineo, una piccola bambina orientale che, adorante, aspetta di ascoltare una storia assieme agli altri bambini, e a sorpresa, «persino conciato così, lacero, con la barba lunga e non rasata, con un braccio che gli pendeva inerte al fianco, Santa Claus arrivò a Simpson’s Bar e cadde svenuto sulla soglia della capanna».

 

 

 

 

 

 

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