Un testo in cui globalismo e localismo, lungi dall’essere semplicemente due termini opposti al massimo da unire per dar vita a quell’obbrobrio cacofonico che risponde al nome di glocalismo, si compenetrano fino a fare dell’uno il presupposto dell’altro: il sacrosanto diritto a non dimenticare le proprie radici, il desiderio di vedere se, innestate altrove, nutrite da terre lontane, possano dare comunque frutti, se possibile ancor più rigogliosi.
La coautrice e postfatrice Vanessa Maher, antropologa inglese che ha vissuto l’infanzia e la giovinezza in varie parti d’Africa, nonché successivamente docente di Antropologia Culturale in diversi atenei, italiani ed esteri, tra cui quello della “mia” Verona, ci mette sull’avviso: quanto abbiamo letto è “un’opera di fiction, un romanzo”: chi intende trovarvi riportati i fatti di vita dell’autrice, Brigitte – nel libro “personificata” dalla protagonista Ameze -, resterà col famoso palmo di naso.
Manzonianamente parlando, ci si è mantenuti sul terreno del cosiddetto verisimile: gli spostamenti dai diversi luoghi d’Africa vissuti al Sudamerica, indi all’Italia di Ameze non sono gli stessi di Brigitte, ma nella vita dell’autrice sono accaduti eventi molto simili a quelli raccontati. Così come i nomi propri: sono stati cambiati rispetto agli originali ma per i gradi di parentela, i rapporti interpersonali ottimi, buoni o pessimi, ci si è attenuti a quelli della vita vissuta di Brigitte: l’importanza che gli derivava dall’essere la figlia primogenita di una famiglia appartenete all’élite locale ma al contempo la scarsa considerazione di cui godeva in quanto donna in una famiglia e società di stampo decisamente patriarcale; il tesissimo rapporto con la seconda moglie del padre, uomo talmente tutto d’un pezzo da risultare duro, forse troppo; il cordone ombelicale – fortunatamente – mai reciso con la famiglia materna, il più intenso collegamento con l’Africa durante tutti gli spostamenti dell’autrice/protagonista. Ed infine, l’amore scoccato, suggellato da un matrimonio e due figli, con un missionario italiano, la più grossa opposizione al quale la si riscontra non tanto nella famiglia di lei, quanto nella cattolicissima famiglia d’origine di lui, con i parenti che, ben memori dei sacrifici compiuti per dargli determinate possibilità, proprio non riescono a concepire il perché si sia spretato, incolpando la moglie addirittura di averlo “stregato”.
Brigitte Atayi e Vanessa Maher si sono conosciute a Verona, impegnate entrambe in realtà associative di donne italiane e straniere e in corsi universitari per mediatori culturali. Tra le due si sono create presto sintonia ed amicizia, tanto che la prima, conscia di aver vissuto una vita che definire intensa sembra quasi eufemistico e che, viva come si sentiva, riteneva opportuno farla conoscere a quante più persone possibile (questa non è mia, ma del Márquez di Vivere per raccontarla), chiese alla sua amica antropologa se fosse interessata a mettere per iscritto la sua vita, raccontatale dalla viva voce di chi ne è (stata) protagonista. Quindi, due donne poliglotte, Brigitte madrelingua francese, Vanessa inglese, si sono “messe a tavolino”, conversando in italiano, lingua ampiamente padroneggiata da entrambe, e ne è uscita questa storia, densa di significato come un trattato di antropologia, agile alla lettura come i migliori romanzi. Un libro “basato su vite reali ma scritto in forma letteraria”: oltre alla voce principale di Ameze, l’alter ego letterario dell’autrice, infatti, vi si possono trovare le impressioni e i pensieri di Mary, amica inglese della protagonista nella quale non è difficile riscontrare la personalità della coautrice e quelli di Simone, l’amore di Ameze, il padre dei suoi figli.
Vanessa Maher ha ovviamente messo per iscritto il racconto di Brigitte in inglese: il libro che mi auguro presto vi gusterete, è il risultato della traduzione italiana dell’edizione originale in lingua, pubblicato dalle trentine Edizioni del Faro. Un libro dove per nulla si indulge al vittimismo e niente si pretende fuorché ciò che a tutti spetta di diritto; e non tanto per una pelosa carità che possa fungere da lavacro per la coscienza di taluni: è sensazione che spesse volte Brigitte/Ameze ha vissuto sulla propria pelle quella della donna africana che deve essere per forza aiutata, compatita, financo civilizzata (salvo poi, i buoni a tassametro, risentirsi una volta resisi conto di avere davanti una donna istruita, poliglotta e in grado di discernere il bene dal male senza l’aiuto di nessuno). No, qui si parla del poco che spetta di diritto ad ogni singolo abitante di questo mondo!
Un testo che è anche un affettuoso, commovente testamento: Brigitte, infatti, ci ha lasciati nell’agosto 2018 per causa di un tragico incidente automobilistico in Togo, sua terra natìa, ove era dovuta temporaneamente tornare per ragioni familiari.
Per concludere, una chiosa che mi sento in dovere di fare: è già capitato che abbia proposto tra queste pagine recensioni di testi di autori che, in una maniera o nell’altra (il più delle volte grazie alle oggettive possibilità garantite dalla rete), ho avuto l’occasione di conoscere personalmente. Qui il tutto è da considerarsi elevato all’ennesima potenza: Brigitte, infatti, ha trascorso gli ultimi anni della sua vita purtroppo conclusasi anzitempo nel paesino dove vive il sottoscritto, lasciando sempre dietro di sé uno strascico di simpatia ed impegno, specie nelle occasioni comunitarie. Lo stesso impegno di suo marito Paolo, tutt’ora mio compaesano.
Alberto De Marchi
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Gabrielli editori, pp. 251, € 17