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Budd Schulberg anteprima. Un volto nella folla

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Un volto nella folla di Budd Schulberg – inedito in Italia – esce ora da Mattioli 1883 con la traduzione di Silvia Lumaca e la prefazione di Gian Paolo Serino, che qui proponiamo insieme a un estratto. Il libro di Schulberg, pubblicato nel 1953, è stato il primo a raccontare la trasformazione politica in un grande show, diventando poi un film di Elia Kazan.

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Quelli che state per leggere non sono tre semplici racconti. Sono la radiografia sociale dell’America degli anni ’50, che è quanto mai attuale, dove comunicazione e spettacolo sono diventati parte dello stesso vaudeville. Budd Shulberg, soprattutto in Un volto nella folla, denuncia come il circo mediatico abbia inglobato il bene comune, quella che gli antichi romani indicavano come la res pubblica, la cosa pubblica, il bene comune appunto, l’essere politici per vocazione e non per una sete di potere che è il risultato di una ben delineata strategia della finzione. Negli Stati Uniti, già dagli anni ’20, conoscevano l’efficacia della persuasione, come far dire di sì alla popolazione su argomenti sui quali non era d’accordo. Il primo esempio fu la candidatura, nel 1919, a Presidente degli Stati Uniti 10 d’America di Woodrow Wilson, in una campagna elettorale che il sociologo americano Walter Lippmann battezzò come “costruzione del consenso”. Wilson fu il primo a impiegare massicciamente la psicologia di massa per ottenere la vittoria. Con i decenni, quella che oggi possiamo leggere come rudimentale “costruzione del consenso” è diventata “ingegneria sociale”, materia che viene studiata anche al M.I.T. di Boston. Budd Shulberg ha intuito gli effetti della “società dello spettacolo” molto prima dei nostri contemporanei, ormai vittime di un ingranaggio dal quale è difficile liberarsi. Nel suo romanzo I disincantati, per esempio, Schulberg offre uno spaccato feroce e realistico della “Mecca del cinema”, raccontata attraverso gli occhi di Francis Scott Fitzgerald e del suo rapporto a dir poco tormentato con Hollywood. Schulberg si era già fatto notare nel 1947 con la pubblicazione di Perché corre Sammy? ma soprattutto con il romanzo Fronte del porto, completamente lontano dall’happy ending della trasposizione cinematografica di Elia Kazan, nel film che lanciò Marlon Brando. Nel primo racconto di questa raccolta, Un volto nella folla, una conduttrice radiofonica incappa in Larry Rhodes, un cantante folk, e lo fa esordire nel suo programma. Ribattezzato Lonesome Rhodes, solitario Rhodes, il carismatico cantante acquista un successo tale da influenzare addirittura le preferenze del pubblico sia nelle pubblicità che nella politica estera degli Stati Uniti. Semplice, diretto, spigliato incanta il pubblico con canzoncine e barzellette. 

Lonesome è uno di loro: usa il mezzo radiofonico per dire ciò che vogliono sentirsi dire e, talvolta, per denunciare quello che non va. Lo strepitoso successo e la capacità di manipolare le masse lo spingono a sviluppare istinti megalomani montandosi la testa e calpestando ogni sentimento. Un mostro chiamato a manovrare il pensiero della gente, di milioni di spettatori che considera un “gregge di pecore”. Sino all’epilogo, che non vi sveliamo, ma che riflette la società (im)mediata di oggi. Questa è Hollywood e L’imbonitore sono i due racconti brevi che seguono in queste pagine Un volto nella folla: due storie stringate ma che, grazie alla scrittura “disincantata” di Budd Schulberg, diventano il colpo di grazia alla “società della finzione” nella quale sopravviviamo perché anche noi, come gli attori, recitiamo spesso un ruolo che non ci appartiene.

Gian Paolo Serino

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Prima che arrivasse lui avevo un bel lavoro estivo alla KFOX. Mettevo i dischi e leggevo le pubblicità, leggevo le notizie dell’Associated Press – ero una specie di anello di congiunzione tra Fox, Wyoming e il resto del mondo. Prendevo settantacinque dollari a settimana. Guadagnavo abbastanza da avere sempre calze di nylon e pagarmi l’ingresso al salone di bellezza locale. E facevo abbastanza per soddisfare una coscienza asfissiante. Ma questo non ci porta a Lonesome Rhodes. Era una tranquilla mattina durante la settimana ed ero praticamente sola in ufficio. C’eravamo soltanto io e Farrell, che stava lì seduto tra tutti i pulsanti e ci mandava in onda, col doposbornia e tutto. Il capo era fuori chissà dove, per un po’ di relax. Joe Aarons, il nostro promoter, era fuori a raccontare a qualche industriale che il suo business sarebbe fallito se non lo avesse sponsorizzato su KFOX. Ok? Pronti? Fiato alle trombe. Suonate i cimbali. Entra Mister Rhodes. Era grosso e veniva dall’Ovest, ma non era uno spilungone come Gary. Era grosso dalla testa ai piedi, come un fullback robusto dopo tre anni che ha smesso di allenarsi. Aveva il volto arrossato e sembrava sempre sul punto di scoppiare a ridere, il tipo strafottente. Doveva aver superato i trenta da parecchio, ma sembrava ancora un ragazzo. Indossava un completo marrone non stirato e degli stivali da cowboy, e si dondolava da un piede all’altro, con aria timida, anche se qualcosa mi diceva che in realtà era meno timido di un bulldozer. Feci partire un pezzo – un classico, Can’t Get Started di Berrigan – e uscii a vedere perché questo macho sorridente che scorgevo attraverso il vetro era venuto a farci visita nel nostro castello radiocomandato.

“Madam” mi disse, “sono Rhodes, Larry Rhodes. Mi chiamano Lonesome.”

“Chi ti chiama Lonesome?” dissi.

Fece un sorriso dolce e carino. Troppo dolce. Troppo carino.

“Lonesome è il mio nome d’arte, madam.”

“Oh, un artista. Che tipo di artista?”

“Cantante, madam. Cantante folk

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