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Buoni e cattivi

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Per “deontologia” giornalistica non dovrei scrivere di questo libro. Sono stato vittima proprio a “Il Giornale” del giustizialismo (essere condannati prima di una sentenza che poi assolve) che lo stesso Feltri combatte da anni. E parlo di deontologia tra virgolette perché oggi questa parola è ormai sinonimo di facchinaggio culturale, di cecità morale, di sottomissione a logiche “direttoriali” in cui i giornalisti si devono prostrare alle decisioni dall’alto. Una deontologia che porta questi liberi pensatori (a parole) a non schierarsi mai (coi fatti). E anche deontologico oggi, se hai subito un torto, non scrivere di un libro solo perché quel giornalista o quello scrittore non ti sono simpatici, perché non appartengono alla tua conventicola, perché: non ti appartengono. Questa è oggi la deontologia, il volontariato dell’essere schiavi, vittime (in)consapevoli di un ingranaggio che ti riduce al rumore del silenzio.

Sulla parola giornalismo sorvolo perché non ho mai capito cosa sia se non una consorteria di iscritti che si fanno rimborsare le spese mediche dall’INPGI. Non sono un giornalista, sono un critico letterario. Libero. Infatti, dopo la cacciata da “Il Giornale” scrivo per “Libero”. Per anni, sei, sono stato l’unico in Italia a scrivere sia per Repubblica (e tutti gli inserti annessi e connessi: D, Il Venerdì, L’Espresso, Radio Capital) e contemporaneamente per “Il Giornale” e “Il Riformista”. Per me la Cultura non ha colori. Non li ha mai avuti, né mai li avrà. Ho lasciato, invece, “Repubblica” quando mi sono accorto, forse in ritardo, che si era trasformata in un’azienda-partito. Dopo questa deriva dei sentimenti, che negli Stati Uniti chiamano “giornalismo gonzo” (quello, per intenderci di Tom Wolfe e Hunther Thompson: li amo entrambi, ma al bianco di Wolfe preferisco la cenere di Thompson), passo al libro. Una lettura che consiglio a tutti. Ho finalmente ritrovato il Feltri che amavo quando, a 16 anni, andavo a scuola mettendo “sottobanco” l’ “Indipendente”, un quotidiano che tra gli editoriali di Feltri e di Massimo Fini ha lasciato un segno indelebile nel mio io d’inchiostro, ma anche nella storia editoriale italiana. Ricordo ancora il profumo di quella carta che non ho mai più ritrovato, la grafica elegante, articoli che non erano articoli ma piccoli capolavori di genuina e (im)mediata rivolta contro l’essere (umano) degli anni ’90. In “Buoni o cattivi” ho ritrovato quel Feltri, accompagnato dal genio di Stefano Lorenzetto. Un libro che consiglio perché sembra scritto da un padre per un figlio: è un inno di libertà, di eleganza, di stile, di maniera e soprattutto di sostanza. In un mondo che non ha più “Cuore” ci vuole fegato. E Feltri lo dimostra, facendoci godere una lettura (con tutti i vantaggi per porta la scelta del sillabario). Feltri non le manda e dimostra cosa sia “il mestiere di scrivere” (più importante, dicono, di quello di vivere). Con maestria ritrae i protagonisti politici, editoriali, culturali, spettacolari, imprenditoriali, della seconda metà del ‘900. E si salva sempre ai punti: magari descrive, tra le righe, un protagonista come il peggior criminale e poi gli affibbia un 8. E magari, al contrario, sembra amare quelli che detesta. C’è tutto un gioco psicologico e politico dietro ogni ritratto di Feltri, ma al lettore non importa, importa il lato ludico. E allora giochiamo: perché tra queste pagine si gioca che è un piacere. Giocare nel senso di “giogo” latino.

Il lettore rimane impressionato dalla scorrevolezza della penna di Feltri (per chi lo conosce solo televisivamente), dalla narratività lontana mille miglia dalla barba dei frati che solitamente si avventurano in ritratti e ritrattini. Si inizia da Natalia Aspesi (per me la Mary Poppins della critica italiana) esordiente a “La notte” e oggi tra le prime firme di Repubblica: non disturba mai, come scrive Feltri “ricama”.

Poi Silvio Berlusconi esordendo con: “Silvio Berlusconi è sincero solo quando mente. Se non si capisce questo, non si capisce niente di lui. E’ talmente convinto di quello che dice, anche se sa che non è vero, che finisce per convincere non soltanto gli altri, ma persino sé stesso”. Se esiste qualcun altro in Italia che non è Silvio Berlusconi al posto di alzare la mano (gesto che dal pugno chiuso al saluto fascista è approdato a “Uomini e Donne” di Maria DE Filippi) mi scriva una mail (giaserin at tin.it ). Astenersi aspiranti scrittori. O si è scrittori, quindi non scrivetemi o non lo si è.

Alla voce Mario Calabresi, “è figlio di chi sappiamo”, Feltri affronta un argomento che nessuno ha mai avuto il coraggio di mettere nero su bianco. L’ascesa giornalistica precoce di Calabresi è il suo risarcimento di Stato. Ma esiste sempre una nemesi che lo porta a essere giovanissimo caporedattore della stessa “Repubblica” di cui Adriano Sofri, condannato per la sentenza di morte di suo padre, è editorialista. Se questo è un uomo.

Feltri affronta argomenti che solitamente mandano in corto circuito la deontologia giornalistica, ma lo fa con uno stile che potete capire sin dalla copertina. “Buoni e cattivi” dovrebbe diventare un libro di testo obbligatorio per le scuole di giornalismo (mi dicono esistano anche quelle), per i corsi di scienze della comunicazione, ma anche alle scuole di scrittura (sì, esistono anche quelle). E’ un libro straordinario: ironico, pungente, mai banale e soprattutto molto letterario. Feltri e Lorenzetto riescono a scrivere un “sillabario” della memoria e contemporaneamente un romanzo d’appendice con l’appeal della narrativa e il respiro della grande letteratura. Consiglieri a Feltri di scrivere un grande libro di meta-fiction, un romanzo basato su dati reali ma che raggiunga più lettori possibili. Feltri non ha mai creduto nelle dittature in Italia: che sia comunista o berlusconiana. Ha sempre intuito i pericoli di una politica che diventa farsa e di un’Italia che non vive in un regime, ma in un reame. Ci raccontano favole (lui le chiamerebbe “balle”) che ci (in)cullano.

Leggete “Buoni e cattivi” perché è anche, e soprattutto, una lezione di vita: che la parola successo è soltanto il participio passato del verbo succedere”.
 

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