La nostra deriva psicogeografica ha inizio in via Cascia 6, nel nord est di Milano, dove gli spazi architettonici pur conservando i segni dell’abbandono industriale hanno assunto un’affascinante forma umana, di quiete imponente commista a un presagio di decadenza. Cominciamo senza Debord. O forse è proprio la deriva di Debord che stiamo portando alla deriva. Perché, se Debord ha teorizzato la necessità del lasciarsi andare nell’esplorazione urbana come pratica di riappropriazione dell’individualità, non ci ha spiegato sufficientemente a fondo in che modo. L’idea è che attraverso la deriva l’uomo riesca a liberarsi dal giogo della vita quotidiana. E la possibilità della deriva gli permette di riconoscersi come essere distinto dall’animale che, per istinto, tende immancabilmente al ritorno. Ma come si procede concretamente? La prima operazione – un suggerimento ci arriva già da Herder e dall’illuminismo radicale – sta nell’osservare l’adattabilità umana all’ambiente, altra caratteristica che ci differenzia dall’animale ed è speculare alla nostra condizione di vuoto, carenza e desiderio di ricerca. Il passo successivo è prendere atto della capacità di dividere i sensi, origine del processo di decostruzione che consente all’uomo di raffinare la sua sensibilità estetica. Il fine della deriva, propone Dario Borso, non è lasciare che il paesaggio pervada tutti i nostri sensi, come voleva Debord, ma concentrarci solo sull’udito. Seguire l’insegnamento di John Cage, per cui il silenzio non esiste come assoluto ma solo come condizione del suono, e rivolgere l’attenzione ai rumori servendoci il meno possibile della vista. Si tratta di sperimentare simultaneamente ad altri quello che, in principio, dovrebbe essere un esercizio solitario, per cui è importante sottrarsi al rischio della deriva collettiva, trascurato da Debord, di lasciare che sia un elemento del gruppo a orientare il cammino degli altri. Altrimenti la deriva si trasformerebbe in un percorso guidato, in antitesi allo scopo di attraversare una geografia senza meta. Del resto come dimostra Bion, iniziatore della psicoanalisi di gruppo, un insieme di persone non è mai composto da sodali che interagiscono alla pari, ma da esperienze frammentarie, singolarità psichiche irriducibili a un corpo unico. E dunque la deriva di gruppo può rivelarsi tutt’altro che pacifica! Inevitabilmente ci si cerca, ci si scontra e ci si ricompone, avanzando rapidi o lentamente, finché ci si perde. È per coincidenza una “domenica a piedi” indetta dal Comune, e a fare da sottofondo alla nostra deriva è lo sgretolio sotto i passi dell’asfalto (che intanto guardiamo come una sequela di quadri astratti), una vibrazione monocorde utile a non farsi ingabbiare dal flusso dei pensieri nell’obiettivo di focalizzarsi sull’istantaneo. Alla fine ci si ritrova a teste basse in via del Ricordo a portare, ognuno di noi, le tracce di un’eco personale: delle grida, il canto di un gallo, lo schizzo delle ruote su una pozzanghera, la scia di un aereo prolungata in un om. Andante presto, maestoso e grave morendo sono i tre movimenti che costituiscono il video di Dario Borso Quattro minuti, trentatré secondi, frutto della nostra deriva “in omaggio” alla composizione rivoluzionaria di John Cage.
Lisa Topi
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http://youtu.be/QzlvsBX_PHE