Gennaro Marco Duello, è nato nel 1983. Vive tra Napoli e Francavilla al Mare con sua moglie Gemma e i figli Sofia e Giuseppe. È un giornalista professionista. Lavora nella redazione Spettacoli e Cultura di Fanpage.it dal 2011. Dal 2012 al 2016 ha ideato e condotto il format Fanpage Town, spazio virtuale dedicato al mondo della musica, che ha visto la partecipazione di molti nomi illustri del panorama nazionale. “Un male purissimo” (Rogiosi Editore, 2022) è il suo primo romanzo. Con il suo ultimo libro, di cui è anche coautore il conterraneo Gianluca Albrizio – “California Milk Bar. La voragine di Secondigliano” (Rogiosi Editore, 2023) -, ha vinto il Premio Fotogrammi per Riflettere, al Mitreo Film Festival 2023.
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Sei un abilissimo romanziere, e un giornalista di talento: che differenza passa, nella tua scrittura, tra l’inventare storie per i tuoi romanzi e il trattare gli eventi reali per ragioni giornalistiche?
Per entrambi, sento di fare un lavoro artigianale. Quando sono davanti a un computer, sono nella mia bottega e uso gli strumenti diversi a seconda di quello che c’è da fare. Per i romanzi, posso prendere in prestito tanto del lavoro giornalistico. Può accadere anche l’inverso, ma è molto più difficile. In genere mi limito a qualche citazione letterale, non di più, che può aiutarmi a imbastire l’incipit di un commento. Per il resto, mi ritengo fortunato perché al giornale io faccio parte di quelli che Nicola Puglese chiamava, con una punta di disprezzo, “culi seduti”. Non faccio il reporter, non vado in giro. Sto alla scrivania, al massimo al divano a guardare spettacoli e tv da recensire, e scrivo. Scrivo sempre. Per me, non c’è niente di meglio.
Sei un grande appassionato di horror, quello di qualità dei grandi maestri, (non lo splatter da due soldi che certa cultura contemporanea vorrebbe spacciarci per vero intrattenimento), ci racconti come è nata questa tua passione? E spiegaci pure se hai intenzione, in quanto autore, di cimentarti in questo genere narrativo.
La mia passione per gli horror nasce, come tutti credo, da piccolino. C’era mio zio che lavorava alle consegne di edicole e librerie, portava a casa dei miei nonni di tutto: libri, riviste, vhs, collane d’ogni tipo tutte a tema. Anche qualche rivistina un po’ hard. Mi pare di ricordare che il primo horror che ho visto è stato “La casa 2” di Sam Raimi e poi “Cabal” tratto dal bellissimo romanzo di Clive Barker. Uno dei primi romanzi romanzi che ho letto è stato “Il sepolto vivo” di Patricia Highsmith che faceva parte proprio della collana della biblioteca del brivido di Giunti. Avevo 10 anni e non ci capivo niente, ma adoravo l’idea di trasgredire, di stare nel ‘brivido’.
Poi, non per smentirti, ma ti dirò che trovo alcuni splatter da due soldi molto più cinema di tanti mappazzoni psico-esistenziali, che pure mi piacciono. Penso all’incredibile successo di Terrifier, che mischia tutto quello che anni ’80 e non ha trama, solo violenza. Certo, non è Braindead di Peter Jackson ma l’ho trovato bellissimo.
Per rispondere all’ultima domanda, sì, ho un soggetto che credo sia certamente perturbante. Un ‘factory horror’, per la precisione. Per adesso, sono solo due paginette di soggetto e una sinossi breve.
Con il dj e scrittore secondiglianese Gianluca Albrizio hai scritto a quattro mani il libro California Milk Bar, testo che narra di un fatto storico realmente accaduto: la nota voragine di Secondigliano. Ad oggi, secondo te, quanto è stato fatto per tenere vive la memoria di quella sciagura? Ora che il libro è tra i lettori, quanto ti senti consapevole della forza narrativa di un testo come il vostro? (Mi riferisco, ovviamente, alla capacità documentativa e narratologica di un autore che opera nella società in cui viviamo…)
È stato fatto molto poco per tenere viva la memoria delle vittime della voragine. Basta andare lì, nel luogo della tragedia, per capire. C’è solo una cappella in uno stato che dire fatiscente, è farle un complimento. Noi, da secondiglianesi di qualche generazione fa, siamo cresciuti con questa tragedia nel cuore e nella testa. Il 23 gennaio 1996 è quello che per tanti napoletani è il terremoto del 1980. Per usare l’espressione più abusata, è il nostro 11 settembre. Una sciagura che però non fa notizia, perché da noi si preferisce stare sulle faide di camorra per farne mitologia narrativa. Con questo libro, abbiamo cercato di invertire questa tendenza.
Si dice in giro, sbagliando, che in Italia si diventa scrittori solo se figli d’arte. Ti andrebbe di raccontarci quale è stata la tua formazione autoriale e quanto hai faticato per diventare il riconosciuto autore che sei?
Ma, sai, intanto io sento di dover fare ancora molto lavoro prima di potermi sentire “riconosciuto”. Forse “riconosciuto” non lo sarò mai e forse non è questo quello che è importante. È importante il fatto di essere nato lettore, e lettore sarò sempre prima di ogni altra cosa. Non ho avuto formazione specifica se non nei libri che ho letto e che continuo a leggere. Poi, quando ho deciso di fare sul serio, ho frequentato corsi e professionalità che mi hanno aiutato ad affinare i miei testi. Lasciami citare Emanuela Cocco e Raul Montanari, tra tutti. La stessa formazione, uno scrittore che si reputa tale, non dovrebbe mai interromperla. Come non si interrompe, d’altronde, in tutte le altre professioni, compresa quella di giornalista.
In ragione della tua infanzia a Secondigliano, rispetto agli stimoli culturali necessari alla crescita di ogni individuo, secondo te quanto è stato fatto – negli ultimi anni – nella tua terra a proposito di: attivazione e gestione di biblioteche pubbliche, attivazione e gestione di librerie indipendenti, eventi in generale finalizzati alla trasmissione dei saperi attraverso la lettura condivisa di libri.
Molto poco. Pensa che a Secondigliano non ci sono librerie e persino le edicole stanno chiudendo. Gli eventi che si fanno restano pochi e sono casi isolati e veicolati male. Pare però che presto ci sarà un festival letterario che unirà tutta la municipalità di Secondigliano, Piscinola e Miano. Sono curioso. C’è Rosario Esposito La Rossa tra i promotori e questo mi pare una garanzia. Poi lasciami citare l’associazione Larsec Secondigliano di Vincenzo Strino che si fa in quattro per il quartiere, ma è troppa sola e poco assistita a differenza di altre associazioni che, nel corso degli anni, hanno finito per trasformarsi in macchine auto-assorbenti di fondi pubblici. Qualcosa di molto horror, ecco.
Ti invitano in una scuola di periferia a parlare di libri. Alcuni degli studenti presenti sono distratti dal proprio smartphone. A discapito di altri che vorrebbero ascoltarti. Hai pochi minuti per richiamare l’attenzione dei “distratti” e farti ascoltare. Letteralmente: cosa dici loro?
Siete degli stronzi. E da quel momento, probabilmente, partirebbe una rissa che includerebbe persino i dirigenti scolastici.
Di cosa parla il libro che stai scrivendo al momento? E più in generale, come dove e quando lavori ai tuoi romanzi?
È una storia molto semplice: il protagonista riceve un messaggio da un vecchio amore dei vent’anni. È una richiesta d’aiuto: suo marito è un violento. Ai romanzi ci lavoro alla scrivania della mia stanza da letto, generalmente la mattina presto prima di scendere per andare al lavoro. È molto difficile scrivere di notte, per me, a meno che non si tratti di una seconda stesura.
Scrivere significa anche trasfigurare la vita reale, prende il vissuto proprio e altrui e ricavarne storie. Ti sei mai vendicato di qualcuno o qualcosa (che avevi a cuore o che odiavi) inventando una storia?
No, mai. Magari qualche volta ho barato, scrivendo una traiettoria diversa rispetto a come le cose sono andate nella realtà. Se quella ragazza, tanti anni fa, non l’ho baciata, faccio in modo di baciarla nella finzione narrativa. Se quel ‘vaffanculo’ non l’ho detto, farò in modo di metterlo nella bocca di uno dei miei personaggi. Ma non credo che sia vendicarsi questo. Credo faccia parte del naturale rapporto tra me e il testo che prende vita davanti a me, per mano mia.
Cita cinque romanzi contemporanei per te fondamentali. Raccontaci pure come hanno cambiato il tuo approccio (prima) alla lettura e (poi) alla scrittura.
In questo momento me ne vengono in mentre tre.
Dalle rovine di Luciano Funetta. È stato il romanzo che più di altri ha acceso la mia voglia di scrivere. Non ti so spiegare perché, ma bisogna leggere quel libro per capire. Nel mio piccolissimo ho voluto fargli una citazione in “Un male purissimo”. La scena della doccia. Ho cercato di ricreare lo stesso tipo di straniamento, molto più fisico e terreno, che c’è nella prima scena fondamentale tra Rivera e i suoi serpenti. Non scriverò mai bene quanto lui. Questo vale anche per i prossimi che cito e per tutti quelli che amo, ovviamente.
L’ombra dello scorpione di Stephen King. Il primo libro che ho letto del “Re”. Un libro perfetto, lunghissimo, pieno di intrecci, pieno di cose da dire. Dopo averlo letto, ho capito che avrei letto tutti gli altri suoi romanzi. Anche quelli che sono tremendi (e ce ne sono).
Strane cose, domani di Raul Montanari. L’uomo che è a tutti gli effetti il mio maestro. Sarei capace di starmene ore a leggerlo e ascoltarlo. Questo libro in particolare contiene alla perfezione meccanismi che sono suoi e solo suoi, come le riflessioni sulla vita, sull’uomo e i suoi rapporti inseriti in una storia piena di ritmo. Non puoi mai lasciare una storia di Montanari. Vorrai sempre sapere come va a finire e credo che questo sia uno dei piaceri che sono alla base della scrittura e della lettura.
Cosa pensi delle IA come strumento di scrittura? Sono davvero utili? Le hai mai usate per scrivere una storia? Secondo te sono un alleato o un nemico nei confronti della gestione del processo creativo dello scrittore?
Nel romanzo che ho terminato c’è una riflessione sul tema. Il protagonista – che è un giornalista – scopre che c’è la volontà da parte del suo editore di inserire un sistema proprietario di IA. Si crea il panico in redazione, tutti credono che di lì a poco verranno rimpiazzati. Ed è questo uno dei conflitti che manderà avanti il romanzo.
Credo che il dibattito sull’IA sia visto con il solito approccio semplicistico, la solita fobia per il progresso tecnologico. Processiamo tutti i giorni milioni di dati, scriviamo tantissimo sul cellulare, al computer. L’IA può aiutarci con le cose più semplici, che hanno bisogno di meno attenzione. Io non l’ho mai usata per scrivere ma mi piacerebbe tenerla a sistema in modo da scrivere al posto mio – faccio un esempio sul lavoro di redazione – l’abstract di un pezzo, il riassunto da cento battute da pubblicare sotto a un titolo. Oppure la traduzione di un pezzo dalla rassegna estera. Tutte cose che ripetute quotidianamente ti fanno perdere tempo che potresti impiegare a rifinire meglio altri aspetti del proprio lavoro.
Ci racconteresti a quale artista sono ispirati gli occhiali che indossi e quanti altri gadget d’artista possiedi?
L’altro giorno ho fatto una battuta sui social, ma non è neanche tanto una battuta. Ho mostrato la mia nuova montatura e ho detto: Simenon andava a donne ogni volta che finiva un romanzo. Io, invece, cambio gli occhiali. Sono un appassionato, mi piacciono. Ne comprerei un paio a settimana. Al momento ho 5 paia da vista e altrettante da sole che indosso a giro. Gli occhiali più iconici ai quali tu fai riferimento sono i Preciosa Goliath. Sono stati gli occhialoni di George A. Romero e ho sempre desiderato averli. Ora ne ho presi un paio ispirati a Clive Barker e ai suoi cenobiti. Trema al pensiero.
Esiste una storia che non scriveresti mai? Di cosa (non) potrebbe parlare?
No, non c’è una storia che non scriverei mai. Non c’è un tema che non affronterei. Mi piacerebbe esplorare tutti i generi nel mio stile, con la mia voce.
Stephen King cammina a piedi di pomeriggio, lungo i sentieri di paese. Haruki Murakami corre, ogni mattino e in qualsiasi condizione climatica. Ogni scrittore ha le sue abitudini e i suoi tic. Gennaro Marco Duello, quando deve pensare alle storie da scrivere, che fa per tenere impegnato il cervello?
È un momento in cui prendo la rincorsa. Leggo quello che mi serve per il progetto, inizio a mangiare più spesso e più abbondante, guardo almeno un film classico a settimana. Poi, dopo un mese così, quando ho le idee abbastanza chiare, comincio a scrivere.