Davide Sapienza, scrittore, giornalista, traduttore ed esperto di Jack London, esploratore a tutto tondo dei territori che attraversa così come delle parole che sceglie per raccontare e raccontarsi.
È il binomio natura-scrittura quello in cui ha scelto di muoversi negli ultimi anni. Un percorso trentennale, il suo, cominciato nell’ambito dell’editoria musicale (tra i numerosi libri da lui curati, i più noti sono quelli dedicati agli U2, Simple Minds, Waterboys, Neil Young, Nirvana, Frank Zappa, Jimi Hendrix) e proseguito con la scrittura profondamente connessa alla natura. Collabora con il Corriere della Sera (Bergamo) come editorialista e autore di reportage. Camminando (Lubrina Editore, 2014, pagine 120) è il suo ultimo libro.
Per presentare i tuoi libri, ai tradizionali reading nelle librerie o nelle biblioteche preferisci reading itineranti, a contatto con la natura. Ritieni noiose le presentazioni canoniche o pensi che lo scambio diretto e immediato con le persone, meglio se lungo un sentiero, possa far conoscere meglio i tuoi libri?
Dopo i primi venti anni di editoria nel mondo della musica, con incursioni poetiche legate all’arte dei Nativi Americani, sviluppando l’aspetto legato al viaggio e al camminare, mi sono visto fisicamente sempre meno volentieri all’interno delle librerie – luogo peraltro spesso molto affascinante. Ho osservato con interesse – spesso stupore – presentazioni stabilite a orari e in giorni, a causa dei quali solo poca gente poteva essere presente. Ho anche immaginato che avevo bisogno di altri spazi: che sì, scrivo libri, ma li voglio respirare insieme, condividendo più di quella che è la presentazione tradizionale. Dunque, la libreria deve essere un momento speciale, con il libraio coinvolto dall’idea – non tanto del mio libro, quanto della bellezza di un incontro. Non mi piace stare al chiuso e preferisco fare cose differenti, dove il “fattore stupore” deve prima di tutto agire su di me. Come per i bambini, ho bisogno di cose sempre inattese. Fare qualcosa in libreria diventa speciale, perché lo faccio raramente. Nel 2004, all’uscita di “I Diari di Rubha Hunish”, girai splendide librerie; dovevo ripartire da capo, era il mio debutto letterario, non sapevo cosa sarebbe accaduto e ne girai una trentina, alcune davvero splendide. Stare con persone che scelgono di venire ad ascoltarti è bello, ma stare con persone che decidono di venire a condividere con te un pezzo del loro cammino è impagabile.
Sempre meno il viaggio a piedi è visto come vacanza. Come mai le persone che viaggiano camminando sono così in aumento? Si tratta di una tendenza degli ultimi anni, e quindi di una moda, o è una ricerca del tutto personale?
Camminare è un’essenza che non è mai andata via. La vacanza – che è un’assenza, la descrizione di qualcosa che manca – per molte persone è in realtà voglia di “presenza”, di consapevolezza delle cose che si fanno, anche quando ci si ritaglia uno spazio dalla vita di ogni giorno per capire l’importanza del proprio andare. Camminare credo sia semplicemente qualcosa che è tornato al centro della discussione, dell’attenzione, un’azione naturale, spontanea, ma fondamentale, alla quale sempre più persone – migliaia di persone – hanno saputo attribuire l’importanza dovuta. Il che significa che c’è stata una presa di coscienza, si è capito che occorre dire a chiare lettere perché è importante camminare; che nulla va dato per scontato; che vogliamo essere tutti wanderer nel mondo. Chiamo le mie camminate “natural reading”, il che mi permette di usare “natu.re.” come una specie di acronimo per far capire che in questo “evento” vogliamo – io e i partecipanti – metterci qualcosa di più. Così diventa un rito naturale, senza dogmi. Qualcosa di profondo, di grande, di gioioso.
Viaggiare, per molti, è spostarsi da un posto all’altro; per altri è conoscere, entrare in contatto con persone, cose e paesaggi, assorbire la cultura e la realtà attraversata. Per te, cosa è viaggiare?
Per me viaggiare è come nascere. Non ricordo l’attimo della nascita razionalmente, ma il mio inconscio sì. Lo stesso è viaggiare: non posso sapere davvero quando inizia un viaggio perché, mentre pensi che ti stai preparando, sei già partito – con la mente, con lo spirito, con il sogno. E io so che ogni viaggio è partito da molto lontano, che dentro di me agiscono forze molto più grandi. Che quando ascoltai “A Salty Dog” nel 1969, da bambino, probabilmente collegai quella musica e quelle parole – che non sapevo decifrare – ai luoghi che più amo, le terre del nord tra ghiacci e luce tersa e profonda; agli uomini che navigavano scomparendo dalla loro quotidianità per anni. Non avrei altra spiegazione per il forte legame che ho con la geografia e l’esplorazione, oltre allo stimolo in casa, avendo ricevuto “in pasto” letture di ogni genere, incluse quelle avventurose. Viaggiare è interrompere un flusso e partecipare alla creazione di una nuova realtà personale.
Gesualdo Bufalino scriveva “C’è chi viaggia per perdersi, c’è chi viaggia per trovarsi”. Tu perché viaggi?
Io viaggio sempre, ogni giorno, e non è retorica. Il Grande Viaggio – la nascita di mio figlio che ha appena compiuto sei anni – non è un viaggio per perdermi o per trovarmi, ma un viaggio per diventare: padre, uomo più completo, più saggio addirittura, più capace di soppesare le cose e anche l’idea stessa di viaggio. Vedo un orizzonte davvero sconfinato, le coordinate cambiate. Non si deve mai avere paura di perdersi: nel perdersi ci si trova perfettamente a proprio agio con gli elementi, con la Terra, con se stessi. Per rispondere, direi che mi perdo per trovarmi più vicino alla traccia lasciata dall’essenza del mio destino.
Nel tuo ultimo libro, “Camminando” (Lubrina Editore, 2014; Feltrinelli Zoom 2015), ti sei soffermato sulla cosiddetta “intelligenza dei piedi”. Cosa intendi esattamente?
L’intelligenza dei piedi è ben percepibile quando si cammina. È l’intelligenza del corpo che non deve sempre sottostare alla dittatura del cervello, collocato al suo vertice nella scatola cranica. Quando cammino in montagna, non devo pensare: cammino. È un automatismo, direi un atavismo. Come racconto nel libro, camminando al buio ho capito e ho dimostrato che i piedi sanno muoversi senza sottostare al pensiero del cervello, optando apertamente per il pensiero del corpo. In altre parole, i piedi sono l’inconscio del nostro corpo. In un passaggio di Camminando, affermo che “camminare è la mente” e sempre in quest’ottica dico che parlare di camminare, come di qualsiasi cosa, senza farne esperienza, non ha valore se è qualcosa che viene solo dal cervello, dalla “ragion pura”. Se fosse il contrario, la “ragion pura” non avrebbe contribuito a distruggere il mondo delle risorse naturali, dunque le condizioni stesse del nostro vivere in armonia. Noi abbiamo innescato processi che escludono la realtà, invece di includerla, abbagliati da numeri e statistiche. Chi cammina, sa bene cosa intendo. Bisogna intervenire sul pensiero e allargarlo a tutto ciò che sta fuori dal cervello. Il cervello non basta. Serve il corpo, per pensare olisticamente.
Camminare è un’arte?
Non più di quanto lo sia vivere. Possiamo però creare opere d’arte immaginando e sognando un nostro cammino: trasformare un percorso consueto nei luoghi dove viviamo, in qualcosa capace di sorprenderci. Inventarci ritmi e soste, sguardi e respiri sempre differenti, proprio come un musicista che improvvisa su un tema conosciuto. Allora sì, quella è arte – arte che cammina e ci illumina.
Tu ami la montagna, tanto che hai deciso di andarci a vivere stabilmente. Camminare con le racchette da neve ai piedi è comunque camminare?
Con la neve ho un rapporto molto intimo, non a caso ho scritto La musica della neve, uscito nel 2011 (che è diventato anche una performance musicale letteraria e un cd). Camminare è camminare. Sci-escursionismo con le pelli, percorsi con le racchette da neve, camminare nella neve… è sempre camminare – muoversi, spostarsi, esplorare, elaborare la Terra Bianca. Nella neve tutto si esalta all’ennesima potenza perché la traccia è tua e solo tua, se lo vuoi. Ti inventi da solo un percorso che puoi fisicamente vedere, volgendo indietro lo sguardo per immaginare dove puntarlo, avanti. Magari chiudendo un cerchio, che ti fa sentire la circolarità della vita, del respiro e della Terra.
Hai scritto un saggio sulla “Democrazia del camminare”. Camminare come atto democratico. Puoi ripercorrere il senso di quel saggio?
Il titolo partiva dalla mia reazione alla lettura di Storia del camminare di Rebecca Solnit. La mia idea centrale è che solo camminando e (ri)occupando fisicamente lo spazio possiamo mantenere la vastità interiore che il movimento libero ci offre. Ci sono città dove chi gira a piedi è visto come un tipo strano. A volte parli con delle persone che ti dicono, “ma ci vai a piedi?” perché hai chiesto indicazioni per un luogo distante dieci, venti minuti a piedi. Al netto di impegni e giustificazioni, non percorrere a piedi gli spazi della quotidianità significa perdere la relazione con il proprio territorio. Il che è esattamente ciò che il potere politico desidera. Per questa ragione, non se ne parla mai in nessuna sede: l’ignoranza rispetto alla geografia ha consentito il saccheggio del territorio perché lo attraversiamo rapidamente dicendo, “ooooohhh, il treno va a 400 kmh!” ma a quella velocità non vedi cosa fanno al territorio. Con ciò non intendo dire che il treno veloce sia inutile in assoluto. Lo stesso vale per infrastrutture come la recente BreBeMi in Lombardia: si continuano a tracciare segni neri e indelebili che cancellano suolo, territorio, identità, storie, relazioni. Camminare è “pericoloso”. Prima di Natale hanno impedito alla Repubblica Nomade di Antonio Moresco di entrare in un centro commerciale: la loro gravissima colpa era quella di esserci arrivati dopo alcuni giorni di cammino. A piedi! Cerchiamo di notare la paranoia cavalcata da alcuni politici, relativa all’idea “nomade”. Tutto ciò che non è controllabile, è pericoloso.
Il camminare può essere inteso come un atto rivoluzionario? Magari per chi ha corso tutta la vita e ora vuole rallentare.
Camminare ti rimette in linea con il tuo ritmo interiore, quello più vero e così mentre sistemi il tuo organismo, anche la tua percezione interiore cambia, dunque anche quel ritmo interiore. È un percorso entusiasmante, anche faticoso, ma senza ritorno. Farlo costa tanto, perché spesso si ha paura a guardare “dentro”. Chiunque cammina sa cosa intendo – ne ho conferma settimana dopo settimana durante le camminate letterarie. Alla passeggiata d’autore di Milano ho sentito una coppia dire, “tu pensa, abitiamo a un chilometro da qui e non ci eravamo mai accorti che si poteva arrivare a Greco in questo modo e vedendo queste cose”. È la ragione per cui faccio ciò che faccio. Al chiuso, questo non potrebbe mai accadere. Ora, quella coppia probabilmente starà più attenta ai cambiamenti imposti al proprio quartiere, alla propria città. Non per merito mio: il merito è loro, che hanno deciso di venire a camminare e condividere una mattina con noi. Io ho semplicemente fatto da tramite. Ho fatto “il dito”, ma la “Luna” l’hanno trovata da soli.
La macchina fotografica può essere un modo per prendere appunti?
La mia maniera più diretta per prendere appunti è catturare immagini. Giro con reflex o compatta e quaderno degli appunti. Le circostanze fanno il resto, ma parte tutto dallo sguardo.
Hai sul Corriere della Sera (per l’edizione di Bergamo) una rubrica settimanale “Sentieri d’autore”. C’è un sentiero che vorresti raccontare ma che si discosta dalla linea editoriale concordata?
Fondamentalmente mi hanno dato carta bianca e dunque quando io concordo “le prossime puntate” (ci avviciniamo a 70!), per me è una gioia parlarne con Marco Brizzi che condivide un grande amore, anche professionale, per la cultura, la bellezza e il territorio. Allo stesso modo, ascolto volentieri i suggerimenti, perché mi viene lasciata la totale libertà di coniugarli a modo mio. È uno stimolo reciproco e ho avuto la soddisfazione di essere stato cercato proprio per questo sguardo sulle cose del territorio: sia per la rubrica, che per i reportage lunghi, con molte immagini. Ho scritto così le cose più belle della mia carriera, come “Camminare è un Canto Alto”.
Ormai vivi in montagna da molti anni. Escludi di tornare a vivere in città?
Lo escludo nel senso che mi piace la dimensione urbana se scelgo io di andarci. Magari potrei provare a stare un periodo lungo in città, ma solo sapendo di avere un luogo “vasto” dove tornare, con tanto spazio per elaborare sogni. La verità è che io in montagna mi sento a casa, non solo dove vivo, ma in generale: sui sentieri, nei boschi, tra le rocce, accanto ai laghi alpini, lungo i fiumi. Ecco, lì è casa mia, perché casa per me è dove scorre il flusso della vita calato nello spazio capace di farmi ricordare che il tempo è una nostra invenzione. Non è il tempo che passa, ma noi e le cose che vediamo. Tutto scorre nel flusso e poi torna a essere energia pura.
Thomas Stearns Eliot afferma: “Non smetteremo di esplorare. E alla fine di tutto il nostro andare ritorneremo al punto di partenza per conoscerlo per la prima volta”.
Sei d’accordo con lui?
Assolutamente. La mia dichiarazione all’inizio di “I Diari di Rubha Hunish” del 2004 diceva praticamente quello, potrebbe essere anche un buon epitaffio: “Avrei deciso per Il Viaggio. Avrei deciso che voglio guardare la schiuma del mare come se fosse l’attimo stesso della creazione“.
Italo Calvino, invece, riferendosi a luoghi mai conosciuti, scrive “Arrivando a ogni nuova città il viaggiatore ritrova un suo passato che non sapeva più d’avere: l’estraneità di ciò che non sei più o non possiedi più t’aspetta al varco nei luoghi estranei e non posseduti”. Cosa ne pensi?
Penso che dentro di noi vivano immensità insondate o insondabili, immensità che tornano all’inizio dei tempi e alla fine ogni atto umano ha una familiarità con le forme ataviche che ci accompagnano e che considero fondamentali per tenere vivo il legame con ciò che Calvino descrive.
A chi, del tutto inesperto, volesse approcciarsi alla “filosofia del camminare” quale percorso consiglieresti e quali dritte daresti?
L’unica dritta è quella di non avere paura di se stessi e delle proprie paure. Camminare è la cosa più facile del mondo e allora la domanda giusta da farsi per iniziare potrebbe essere, “già, ma perché non vado a piedi?”. Primo passo. Poi una volta fatto il primo passo, provata la soddisfazione di sentirsi più vicini a chi siamo, dire a se stessi, “sto bene, non so perché ma sto bene. Cammino, e va bene così.” Secondo passo. A quel punto, fai il terzo passo e sei in viaggio.
Per chi volesse leggere Camminando in ebook http://bit.ly/Camminando-DS
Le prossime passeggiate sono previste per il 20 e 21 giugno. Per maggiori informazioni http://www.davidesapienza.net/incontri.html