L’isolamento, che non è solitudine – sebbene agli occhi d’un solitario non vi sia distinzione – apre varchi inimmaginabili alla cura interiore. Spogliati momentaneamente delle preoccupazioni quotidiane più oppressive, una su tutte il lavoro (che pur nella sua dimensione “agile”, da casa, lascia il terreno a un rallentamento collettivo), i pensieri chiusi a chiave in qualche antro della nostra testa iniziano a bussarci alle tempie. E se solo riuscissimo a elevare questa condizione a virtù, seguendo la celebre sentenza di Blaise Pascal che decreta l’infelicità dell’uomo nella sua incapacità di restarsene tranquillo da solo in una stanza (Pensieri, 126), il beneficio per lo spirito sarebbe immenso. Per Pascal le nostre giornate sono inconsciamente riempite di “divertimenti” o doveri proprio per non rischiare di rimanere soli con noi stessi, non certo quella che si può definire una buona compagnia: senza nulla da fare siamo costretti a scoprire il velo di Maya (come lo chiamerebbe Schopenhauer), il velo ingannatore della realtà, e quindi il nostro nulla, ritrovandoci piccoli e miseri al cospetto dell’universo. È l’ennui, la noia. Quella che Giacomo Leopardi definisce, nonostante tutto, «il più sublime dei sentimenti umani» (Pensieri, LXVIII). Segno di nobiltà di spirito, uno spirito che, al contrario di ciò che muove cristianamente la riflessione pascaliana, esonda, straborda, si compara all’infinito crucciandosi della necessaria contingenza: «considerare l’ampiezza inestimabile dello spazio, il numero e la mole maravigliosa dei mondi, e trovare che tutto è poco e piccino alla capacità dell’animo proprio; immaginarsi il numero dei mondi infinito, e l’universo infinito, e sentire che l’animo e il desiderio nostro sarebbe ancora più grande che sì fatto universo».
Tuttavia, l’angoscia e l’inquietudine che scaturiscono dalla noia non ci devono far paura. Perché l’eccesso di vita interiore di cui parla Leopardi, che è pura vitalità, attestato di piena esistenza, difficilmente riesce a sfuggire al sentimento della noia. Vladimir Jankélévitch (in L’avventura, la noia, la serietà) individua la scontentezza dell’annoiato nel movimento stesso della vita: nell’atto della scelta, lasciandoci alle spalle tutti gli infiniti possibili, abbandoniamo l’eternità intravista in filigrana per fare spazio all’esistenza particolare, la nostra, unica e irripetibile; e questo non può non lasciare l’amaro in bocca. È sempre il rapporto con l’infinito che ci mette in scacco, la sua nostalgia, che è però anche il prezzo da pagare per esistere. Quante cose vorrei fare, leggere, pensare, scrivere, guardare. Sono troppe, devo scegliere. E per un attimo avverto una noia profonda, un “male informe” direbbe Alain, che mi paralizza, inquieta, scoraggia, disincanta. Ma so che è in quest’attimo che prende vita il movimento della mia esistenza, e non voglio certo perdermene il godimento. Tutti ci annoiamo, ed è dolce farlo. Ringraziamo il cielo per questa grandiosa possibilità di annoiarci, da cui può nascere un’isperata stagione d’otium. Come scrive Miguel de Unamuno nel suo romanzo Nebbia: «Quasi tutti gli uomini si annoiano inconsapevolmente. La noia è il fondo della vita, ed è la noia che ha inventato tutti i giochi, le distrazioni, i romanzi e l’amore».
Stefano Scrima