I nipoti del boom: “Avevamo creduto di essere salvi, migliori e più sensibili dei nostri vecchi: potevamo dedicarci a scoprire qualcosa di bello e più profondo sulla vita stessa, il gusto del deserto, l’ardente furore di chi può dubitare di tutto, anche della patria, di Dio, della famiglia. Nessuno ci aveva detto che eravamo perduti all’origine”.
La saggezza di Federico Caffè: “Se il Tesoro si mettesse a riempire di biglietti di banca vecchie bottiglie e le sotterrasse a una profondità adatta in miniere di carbone abbandonate; se queste fossero poi riempite fino alla superficie con rifiuti di città e si lasciasse all’iniziativa privata, secondo i ben noti principi del lasciar fare, lo scavar fuori di nuovo i biglietti: non dovrebbe più esserci disoccupazione… Effettivamente sarebbe più sensato costruire case o simili: ma se per far ciò si incontrassero difficoltà politiche o pratiche, quanto sopra sarebbe comunque meglio di niente.”.
Il DC9 di Ustica: “Il DC9, partito con due ore di ritardo da Bologna, si era dunque trovato nel posto sbagliato al momento sbagliato, sebbene si trovasse esattamente nelle aerovie in cui doveva essere”.
È in libreria Dove la luce di Carmen Pellegrino (La Nave di Teseo 2024, pp. 208, € 19).
Carmen Pellegrino, scrittrice e storica, ha raccontato alcuni nodi salienti della contemporaneità, con il suo romanzo d’esordio, Cade la terra (Giunti 2015), ha vinto il Premio Rapallo Carige opera prima e il Premio Selezione Campiello. Tra le sue altre pubblicazioni si ricordano: Se mi tornassi questa sera accanto (Giunti 2017), La felicità degli altri (La Nave di Teseo 2021).
Dove la luce racconta la vicenda della scomparsa di Federico Caffè passando attraverso la narrazione dell’Italia degli anni 80, dei suoi figli e delle sue disgrazie. Si passa da Ustica alla strage di Bologna attraverso le vicende oscure di quegli anni, come l’omicidio dell’avvocato Ambrosoli, liquidatore della Banca Privata Italiana di Michele Sindona.
Nel racconto trovano spazio le vicende umane di un barbone di nome Milo che diviene amico del professor Caffè e inizia a frequentarlo.
Viene descritta l’anima generosa di Federico Caffè: “Nell’Italia che amava fare l’inventario delle ricchezze private, e tutti gli altri a goderne attraverso le immagini televisive, Federico Caffè era andato fuori tempo massimo, predicatore obsoleto che guardava ancora ai malcapitati della sorte, ai miserabili, ai cafoni che gli ricordavano quelli della sua terra che scendevano in città con le pianelle sulla testa; i cafoni di Ignazio Silone, abruzzese anche lui, che nel 1945 in Fontamara fissò per sempre la condizione dei contadini, che era la stessa nell’Italia intera”.
È dipinta l’innocenza dimenticata delle vecchie generazioni: “E se devi buttare un pezzo di pane, bacialo prima come faceva nonna, sua madre, che si aggiustava la gonna davanti al televisore quando cominciava “il comunicato”, poiché erano sempre uomini a dare le notizie, mai donne”.
La figura di Caffè è quella di un intellettuale impegnato e solo: “Federico Caffè era come l’uomo del faro, studiava i venti e le correnti del mare, trepidava per le imbarcazioni in gran tempesta, faceva luce nella notte con una lanterna e mai si stancava di indicare la costa nella foschia. Ma chi gli dava retta?”.
Carmen Pellegrino ci dona un romanzo di letteratura viva raccontando un uomo di sensibilità e cultura profonda che non si sapeva piegare all’idea di un futuro sempre più impietoso.
Carlo Tortarolo
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Roma (anni prima della scomparsa)
Potremmo metterla così: il Professore si rappresentava il progresso come il passaggio a uno stato della società nel quale, prima di tutto, la gente non soffrisse la fame. Riteneva pertanto il lavoro, che andava garantito a tutti, un obbligo eterno verso l’essere umano. In questa prospettiva, non era dunque un caso che si muovesse sugli autobus per osservare la gente, che facesse lunghe camminate nei quartieri più sventurati, che frequentasse la mensa dei poveri, dove aveva conosciuto Milo, abruzzese come lui e come lui convinto che chi è stato morsicato dalla serpe ha paura anche della lucertola.
A Roma il Professore ci si era trovato, e vi era rimasto per una serie di coincidenze favorevoli; poi l’aveva pure amata, quella eterna successione di rovine, come si può amare una città grandiosa che non ti accoglie mai del tutto, ma neppure ti respinge. Lui veniva da Castellammare Adriatico, sulla sinistra della foce dell’Aterno, di fronte al vecchio centro di Pescara, e qui aveva avuto chiaro fin da giovane che le possibilità che il destino riserva agli uomini sono solo in parte orientabili, e che a far fortuna in imprese rischiose non sono gli uomini nati nella bassa o media condizione. Così, preso il diploma, si era trasferito nella capitale, ospite di una cugina, per studiare Economia. Scelta avveduta e volontaria, certo, ma in parte dettata dal contesto, a cui non si era opposto. Sapeva, infatti, che quelli nati in una famiglia di condizioni modeste, nel centro o nel sud dell’Italia dei primi del Novecento, dovevano quasi sempre rinunciare alle proprie velleità in vista di scelte adeguatamente ponderate, concrete, scelte di maggiore saggezza. A lui toccò rinunciare allo studio del violino, nel quale pure riusciva bene per innata disposizione, giacché soldi da spendere in lezioni di musica in casa non ce n’erano. Il padre lavorava nelle ferrovie, la madre aveva un piccolo laboratorio di sartoria; possedevano un pezzo di terra e non esitarono a venderlo per poter garantire gli studi universitari a questo figlio tanto dotato. E visto che era bravo nel fare i conti – lo confermava anche lo zio Antonio, che gestiva il cinematografo di Pescara e aveva affidato proprio a lui la vendita dei biglietti e la contabilità – fu indirizzato verso studi ragionati, contro l’impalpabilità della musica o anche della letteratura, per la quale allo stesso modo della musica aveva innata passione. Era il buonsenso dell’Italia povera del sud, avrebbe detto lui stesso qualche anno più tardi, quando riacquistò la terra di cui i suoi si erano privati e la restituì alla madre (il padre era già morto), in segno di gratitudine per i sacrifici che avevano fatto per lui.