La bellezza di Satisfiction è che sta sempre più diventando officina creativa non solo dei lettori ma anche degli scrittori. Come nel caso del romanzo a puntate, ogni venerdì, firmato da Veronica Tomassini e come in questo eclatante regalo che Carmen Pellegrino fa a tutti i lettori. Ha deciso, sconvolgendo le regole dell’editoria italiana malgrado ne sia una delle maggiori protagoniste, di dare ai lettori, i veri primi protagonisti di ogni storia che se la racconti e non la ascolta nessuno…, il primo capitolo del suo prossimo romanzo. Ha esordito nel 2015 con il romanzo Cade la terra vincendo il Premio Rapallo Carige nella sezione Opera Prima e il Premio selezione Campiello, entrando nella cinquina finalista del Premio Campiello. Con il secondo romanzo Se mi tornassi questa sera accanto ha vinto la trentaduesima edizione del Premio Dessì nel 2017.
Nel 2018, con Concita De Gregorio – che ha promosso e coordinato il progetto – e altre autrici, ha pubblicato Princesa e altre regine, volume dedicato alle donne delle canzoni di Fabrizio de Andrè, in cui ognuna delle scrittrici dà voce narrativa a un brano dell’indimenticato cantautore.
Ha maturato esperienza televisiva curando, su Rai Uno, Il caffè di Raiuno, rubrica settimanale dedicata alla memoria dei borghi abbandonati e al recupero della coscienza del loro vissuto storico, nonché radiofonica su Radio Rai.
Scrive per il Corriere della Sera, inserto letterario La lettura, ed è autrice di numerosi saggi su riviste letterarie.
La bellezza di Carmen Pellegrino è che si comprende come la sua prosa, che all’esordio ha preso spunto dai paesi italiani abbandonati, non abbandona mai il lettore ed è una vera e propria ancora di salvezza tra tante scrittrici che scendono a troppi compromessi editoriali svendendo la propria opera e di conseguenza il proprio senso di scrittura. Carmen Pellegrino non dimentica, non ha mai dimenticato, che prima di essere scrittori bisogna essere artisti.
Gian Paolo Serino
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Come vent’anni fa e malgrado la debolezza che lo affligge, dalla glottide del Generale continuano a uscire le ragioni seminali dell’aspro suo dissidio con Dio, al quale rimprovera soprattutto tiepidezza, qualcosa che ha a che fare con il compiacimento dell’inerte per la sua stessa inerzia. In breve, gli rimprovera una coscienza rassegnata davanti alle furie umane, e per questo, a un certo punto, cercò di sostituirsi a lui. Se sarà necessario, diceva, ruberò, trufferò, diventerò orribile, ma non resterò a guardare.
– Quest’uomo è affetto da idiozia imbarazzante – diceva Madame.
Quando ci prese in casa la sua battaglia era già in corso, sebbene rischiasse di perdere con disonore, come poi andò. Generale di nessuna guerra, così diceva di sé. Generale della sua personale guerra, perduta su ogni fronte. Ma non era quello il punto, non gli importava vincere, non temeva di passare per pazzo. Ciò che voleva era offrire una meta per una crociata di bambini, una crociata in cui i bambini non andassero a morire e mai più sentire che uno di loro si era dato la morte, perché può accadere anche se non lo vogliamo vedere. Cosa c’entrano i bambini, mi vuoi rispondere? Era la sua ribellione, come quella di Ivan Karamazov, e urlava quando credeva di non essere sentito da noi, ma noi lo sentivamo e lo vedevamo puntare il dito al cielo, gli vedevamo le vene al collo ingrossarsi fino a crepare. Se necessario, diceva, li porterò sulla luna e, se questo significherà sostituirmi a te, be’ ne pagherò le conseguenze, ma non arretrerò di un passo.
Uno dei racconti che ripeteva spesso, che ripete ancora, è tratto dal Vangelo di Matteo, un racconto che trabocca di sangue ma questo sangue non ha la forza di opprimere.
Erode accortosi che i Magi si erano presi gioco di lui, s’infuriò e mandò a uccidere tutti i bambini di Betlemme e del suo territorio dai due anni in giù, corrispondenti al tempo su cui era stato informato dai Magi. Allora si adempì quel che era stato detto per mezzo del profeta Geremia: “Un grido è stato udito in Rama, / un pianto e un lamento grande; / Rachele piange i suoi figli / e non vuole essere consolata, perché non sono più”.
– Perché Dio ha permesso un simile carnaio? – ci chiede. È sera e sulla Collina soffiano i venti deboli di maggio, le finestre sono aperte. Jerus e io ci guardiamo, sappiamo che il Generale non interroga noi, non è da noi che deve venire la risposta alla sua eterna domanda. E infatti prosegue: – Per salvare il suo unico figlio, vi dico.
Jerus interviene:
– Non prova imbarazzo per quel sangue? Non erano suoi figli anche gli altri? – C’è durezza nella sua voce, una durezza risentita che il Generale subito coglie.
– Dio ha un solo figlio. Gli altri sono stati da lui creati come i fiumi, le montagne, gli angeli, la luce e le tenebre.
– Una sottigliezza non da poco – commenta Jerus.
– Cosa può Dio di fronte all’uomo? È l’uomo che genera iniquità e sventura. Prendiamo il caso di Erode, un sanguinario che aveva a cuore i maiali più dei figli: Dio ha fatto ciò che un padre fa, ha preservato il figlio con ogni mezzo.
– Ovvero lasciare che altri siano sacrificati in nome del figlio che poi pure sacrificherà.
– La storia dell’uomo è piena di bambini sacrificati nelle valli, tra i crepacci delle rocce. Prima di Israele, già nella Fenicia vi erano spietati uccisori dei loro figli. Ma non è di questo che voglio parlare, – continua il Generale – ho smesso di chiedermi chi è più indifferente tra Dio e l’uomo, perché non se ne viene a capo.
Resto ad ascoltarli, ma preferisco non intromettermi, e poi ho questioni mie su cui riflettere, per esempio ho una mia idea sul senso di paternità di Dio verso suo figlio: lo vedeva, sì, ma in fondo avrebbe potuto vederlo meglio. È soprattutto per questo che nei miei viaggi entro nelle chiese, vi entro per scrutare il volto di Gesù sulla croce – il volto di un figlio, ne sento il lamento, e il padre? il padre che non lo sente. Solo un figlio come me, come te, se quel volto è sofferente, se chiede aiuto, se è rassegnato o cosa. Una volta in una chiesa di Pescocostanzo, in Abruzzo, notai quel suo volto non piegato in avanti come nella maggior parte delle rappresentazioni: restava sollevato e rivolto al cielo che intanto sfumava nel grigio della lontananza… Questione di istanti, quindi il vuoto o un’eco? Certi bambini devono salvarsi da soli.
Spesso mi sono chiesta se sia possibile vivere in un mondo senza Dio, un mondo che Jerus immagina evangelizzato dalla miscredenza contro il vizietto dei mandati dal cielo di vederlo ovunque, tranne là dove sarebbe educato da parte sua almeno mostrarsi.
– Sono stato scaraventato quaggiù senza averlo chiesto – ripeteva Jerus – e per di più in ritardo, visto che nel frattempo Dio è morto. Ma, incredibilmente, pare che sia stato proprio io a ucciderlo.
– Io credo che tu sia stato mandato da sotto – dicevo irridendo quel suo modo terminale di affrontare certe questioni.
– Può darsi – diceva lui – E vedrai che nel fuoco ritornerò.
Nella trama troppo ellittica dei suoi discorsi, Jerus sembra alla secca di tutte le sopportazioni, ma in realtà nasconde l’affanno di chi ha tanto corso e la prima parola che gli esce spontanea con il respiro, non appena si ferma, è proprio Dio, Dio mio.
Quanto a me, sento di poter dire con sufficiente certezza di essere al sabato del silenzio. Conservo una foto scattata dieci anni fa in Spagna, nella chiesa del castello di Javier, durante il cammino ignaziano a cui presi parte invitata da un giovane gesuita. La foto ritrae il Cristo crocifisso e curiosamente sorridente. Ricordo che incrociai quel volto al termine di una lunga camminata notturna in cui capitò di perdersi, di calarsi da acciottolati che rasentavano burroni, senza luce, in preda alla stanchezza e al sonno. Con le mie fatiche addosso, mi presentai al volto che mi accoglieva con un sorriso. Ma come fai a sorridere da quel patibolo di morte? Il giovane gesuita disse che nessun altro sguardo è capace di accogliere come quello di chi è spinto ad agire solo dall’amore.
Se penso a qualcosa che ha a che fare con il divino, oggi penso a questo: camminare nel buio, perdermi, intristirmi, per incontrare infine un sorriso. È perciò divino l’uomo che te ne regala uno, lo sconosciuto che ti accoglie nonostante la sua croce. Credo dunque nel divino che è nell’uomo, quando fa questo. E credo in Dio che s’è fatto uomo, rinunciando alla sua onnipotenza. A questo Dio posso perdonare il silenzio, la mancata presenza là dove era atteso: questo Dio posso perdonarlo, come qualsiasi uomo sperduto che non sa più cosa fare.
Carmen Pellegrino