L’italiano nel suo vasto repertorio lessicale ci tramanda una parola di rara e atavica bellezza: trenodìa, un canto funebre dal ritmo evocativo e pregnante di pathos. Il connubio tra narrativa interiorizzata e le sfere lugubri del regno dei morti si concretizza con eleganza nell’ultimo libro di Carmen Pellegrino, uscito per La Nave di Teseo.
La Felicità degli altri è il mosaico sfaccettato e allucinante di un averno interiore, la dimensione psicologica e sulfurea si manifesta nei brevissimi capitoli in scene consequenziali di fantasmi che sussurrano alla protagonista Cloe verità insondabili e ricordi da dimenticare. Forse ricordi mai avvenuti. Lei ha la pelle lattiginosa e danza con le ombre, chiaroscuri minimali in prosa che sottolineano il conflitto interiore della natalità, del trauma infantile dell’amore evitato e non sopraggiunto. I dialoghi lapidari, per rimanere in tema, sembrano evanescenti. Forse Cloe parla soltanto con le tenebre che squarciano il giorno, con la caligine che si posa sopra le cose dimenticate.
Una protagonista proteiforme. Cambia identità, città, luoghi, i suoi attacchi di panico voglio aggirare i dolori con un escamotage camaleontico, forse Cloe nel suo continuo divenire cade nel paradosso filosofico greco della stessa Nave di Teseo, mutare l’apparente morfologia per conservare infine i propri bagagli psichici. È sempre se stessa, attaccata allo scoglio dell’infanzia dissacrata, dove i demoni della nascita le hanno serrato la gola, forse costringendola a vivere. C’è anti-natalismo alla Cioran, la critica sprezzante esistenzialista di Thomas Bernard, lo spessore conturbante e immaginifico di una centuria di Manganelli, eppure Carmen Pellegrino ci trasporta con leggerezza nelle sfuggenti voci dei suoi personaggi, imbastendo un teatro dell’assurdo e del ricordo.
Le ombre sono importanti, nasce un’estetica del buio, perturbante bellezza del crepuscolo. Cloe è posseduta da microcosmi tetri che la attanagliano, La Felicità degli altri è un romanzo di anti-formazione, di anti-nascita, una denuncia a una teologia e alla sua genesi. Carmen Pellegrino scava, fino a sporcarsi le mani, dà vita a un’archeologia del dolore tra le macerie e la rovina.
Cloe, edificio distrutto, smantellato dal caos esterno. Le sue pareti slabbrate da amori perduti, l’intonaco crepato dei muri è bianco come il vuoto dei suoi occhi. Eppure l’anastilosi sopraggiunge, tecnica del restauro archeologico che con i pezzi originari dell’edificio riporta in vita le strutture massacrate dal tempo. Viene ricomposta, donna-puzzle, ragazza-mosaico; i tasselli scheggiati tornano al loro posto e forse c’è ancora speranza per tornare in quell’abisso che tutti chiamiamo amore e vita, speranza che esista davvero la speranza. Vaso di Pandora con il doppio fondo, fittizio, ingannevole.
Questo romanzo è una collezione di biografie, istanti di vita, fotogrammi di un film mai proiettato se non in un cinema abbandonato. È bello così, insegna ad amare l’oscura luminosità della notte, l’assedio degli spettri, la fine di tutte le cose. Ma non di noi stessi, perché resistiamo allo sfacelo che c’è fuori.
Cristiano Saccoccia