Questa settimana riprende la Rubrica “Le Tre Domande del Libraio” su Satisfiction e partiamo raccontando “Una minima infelicità” di Carmen Verde, romanzo d’esordio edito da Neri Pozza e finito nella Dozzina del Premio Strega 2023.
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Carmen, prima di intraprendere un viaggio tra le pagine di questo libro, ci racconti il tuo rapporto con la lettura e poi il tuo personale percorso nella scrittura e, infine, come sei arrivata a Neri Pozza?
Parto dalla domanda più difficile, che per me è quella sulla lettura. C’è chi non parla volentieri dei propri fidanzati, a me succede con i libri che leggo. Li considero un fatto privatissimo, a parlarne mi sembra di essere indiscreta nei loro confronti. Posso dire che leggo pochi romanzi, ultimamente. Trovo un’immaginazione più folle in certi libri di teologia o di filosofia, nelle vite dei santi o nella critica musicale. Mi appassiona il coraggio di questi libri di provare a spiegare ciò che non si vede.
Quanto allo scrivere, ho iniziato da copista, ricopiando “Il grande Gatsby”: provavo a immaginare la parola che Fitzgerald aveva messo dopo l’ultima che avevo trascritto, ogni volta scoprendo che la mia scelta era mediocre rispetto alla parola scelta da lui. Sono stata la segretaria di Francis Scott Fitzgerald a sua insaputa; ricopiando, ho imparato come un grande scrittore dispone le luci e le ombre sulla pagina. Oggi scrivere è, per me, molto simile al ricordare. È un grande ricordo: di cose lette, di cose vissute, di cose immaginate, di cose ricopiate. Cose che credevo morte e che d’improvviso, mentre le scrivo, si risvegliano.
Ho scritto “Una minima infelicità” alla scuola Molly Bloom ed è lì che ho incontrato il mio editore. Quando mi sono iscritta, avevo in testa solamente l’incipit del romanzo – che poi è rimasto più o meno lo stesso – e sedici mesi di tempo per scrivere il resto (tanto durava il corso). Non ci sono riuscita, ho fallito. Il fatto è che riscrivevo così tanto, cancellavo, ritagliavo e cestinavo al punto che quando è arrivato il momento di presentare il romanzo agli editori non avevo che cinquanta pagine di cui fossi davvero soddisfatta. Ho presentato quelle, sperando che non mi chiedessero il seguito. È andata a finire che mi hanno contattata quasi tutti gli editori presenti, compreso Neri Pozza. Tempo dopo, mi è capitata sotto gli occhi questa frase di Cocteau, geniale e per me profetica: “L’unica opera che ha successo è quella che fallisce”.
Una cosa che piace molto ai lettori di questo spazio su Satisfiction è perdersi nel racconto dettagliato della Trama da parte dell’autore o dell’autrice. Partiamo dai pensieri di Annetta per immergerci nel mondo che la circonda e tra i vari personaggi che animano la narrazione….
C’era una volta una madre. C’era una volta una figlia. La trama di “Una minima infelicità” la si potrebbe raccontare anche così, con quel punto fermo a separare due vite. La separazione dalla madre inizia in fondo dal momento della nascita: ‘separazione sanguinosa’ la definisce Elsa Morante, in “Aracoeli”.
Ho scelto di aprire il romanzo con Annetta e sua madre sedute l’una accanto all’altra, eppure lontanissime. Le ho guardate a lungo su quell’invisibile palcoscenico prima di cominciare a scrivere di loro. Da ragazza, a teatro, potevo permettermi a stento un posto in piccionaia, a strapiombo sul palcoscenico e così, per vedere meglio, dovevo usare un piccolo cannocchiale. Ho usato la letteratura come cannocchiale. Ho spiato il loro rapporto dolente, gli sguardi mancati, la loro somiglianza impossibile. Ho osservato la vergogna della figlia, convinta di essere lei, con il suo corpo destinato a restare piccolo, la causa dell’infelicità materna. E ho visto la madre ingigantire mentre la figlia, già minuta, rimpiccioliva ancora. “Una minima infelicità” collega una figlia minima a una madre gigantesca e, per questo tramite, il piccolo al grande, il vuoto al pieno, il limite all’illimitato, l’infelicità alla felicità (cito spesso un’osservazione acutissima di Rossana Rossanda: “Felicità è avere avuto una madre felice”). C’è nella famiglia del mio romanzo un padre assente, forse depresso. E c’è nella casa in cui vive questa famiglia una domestica crudele. In spazi che via via diminuiscono, si fanno più claustrofobici. Detta in poche parole, la trama è questa. Non l’intreccio, ma la trama: che spesso si tende a confondere con le vicende che il romanzo racconta. Non lo diceva già Torquato Tasso, nei “Discorsi sull’arte poetica”? Le audacie e le crudeltà, la generosità e le discordie, tutto può entrare nel romanzo ma queste cose devono essere composte in modo che ognuna guardi l’altra, vi corrisponda, ne dipenda. Sì che, basta che ne togli una, e tutto ruina. La trama è questa interconnessione. Lo scrittore la crea mettendo in connessione profonda le cose che racconta, creando quante più possibili, insolite rispondenze di senso. Le vite che racconto attraverso gli occhi della piccola Annetta – quelle della madre, del padre, della nonna pazza, persino quella della domestica – sono in fondo tutte segnate da una mancanza, da un vuoto che ho cercato di rendere sulla pagina. Sono infelicità che si somigliano, ma non sono la stessa infelicità (“È fatta di mancanze, la somiglianza”, mi ha illuminato su questo Edmond Jabès). E così l’estraneità rispetto al mondo degli altri (gli altri che non comprendono, che deridono, che parlano alle spalle) risuona come un’eco in tutti i personaggi. Sono incline a considerare questa la trama di “Una minima infelicità”, molto più delle vicende che accadono nella storia.
Una lingua che ipnotizza e il racconto di una storia che diventa metafora per il lettore di un percorso di vita necessario per superare tristezze, inadeguatezza e difficoltà del vivere. Ci porti nell’officina di lavorazione del libro, soffermandoti sull’aspetto formale dell’opera e le difficoltà nel trovare le parole e il linguaggio giusto per far emergere una storia vorticosa dove l’infelicità finisce per lasciare il passo alla riflessione profonda?
Ti ringrazio molto per questa domanda. La letteratura è forma al novanta per cento e io sulla forma ho lavorato molto. Non penso allo stile come a una cosa fine a stessa ma come parte della storia, come un mezzo che consente di raccontare una specifica storia nel miglior modo possibile, e che anzi può dare al contenuto un ‘sovrappiù’ di senso.
Partendo dai silenzi della madre di Annetta, ho ragionato molto sul silenzio, su come ‘scriverlo’: in un libro il silenzio è il bianco della pagina, quando la pagina è bianca allora si dice che è ‘muta’. Quelle pagine a metà sono scritte per intero secondo me, dall’inizio alla fine: ma con un altro alfabeto. Se guardi una pagina scritta a metà, riesci ad abbracciare con lo sguardo il nero e il bianco, il vuoto e il pieno che si contendono lo spazio.
Trattandosi di una storia di memoria (la protagonista, Annetta, racconta ricordando), ho anche pensato di inserire nel libro molte fotografie. Sono foto di un genere speciale: che non si vedono, o meglio che si possono vedere solo con l’occhio della mente, come accade con i ricordi. E siccome la nostra memoria è frammentaria, ho provato a presentare la storia al lettore allo stesso modo in cui il ricordo arriva nella mente della protagonista. Per frammenti.
Mi accorgo di non aver risposto sulla ‘fluidità’, cui tengo molto, e di non aver detto niente su come ho scelto di scrivere l’infelicità… Ma servirebbe un’altra intervista.
Buona Lettura di Una Minima infelicità di Carmen Verde.