C’è un modo di trattare il genere che permette di abbatterne i confini, superandolo. L’indagine sul crimine, se trattata con giusta sensibilità e dovuta competenza, può ampliarsi, ramificandosi oltre il polveroso trittico delitto-ispettore-investigazione, mostrandoci uno spettro più ampio. Ecco quindi che il corpo della vittima non è più solo il pretesto per mettere in moto la macchina narrativa ma diventa metafora di un territorio, di un’epoca, di uno stato dell’anima.
Caterina Falconi ci porta in un contesto atipico, il fattaccio s’è commesso all’interno della Casa del Sorriso, un istituto di riabilitazione psichiatrico, fondato da un gruppo di Suore Gertrudine.
La vittima, Claudia Paladini, assistente educatrice, giace su un materassino da fitness. Il corpo nudo, il sesso esposto e depilato, suggeriscono l’ipotesi di crimine sessuale.
«La donna non portava le mutandine. Le autoreggenti bianche, una a mezza coscia e l’altra abbassata sul ginocchio, velavano due gambe notevoli. I piedi erano infilati nelle ciabatte sanitarie».
Asfissia erotica, si pensa ma in un luogo dove l’erotismo pare l’ultimo dei pensieri, questa prima ipotesi non convince nessuno. Servirà l’intervento dell’ispettore Vera Ferri, affiancata dalla collega Stella Bellosguardo, chiamate a condurre le indagini sotto la supervisione del magistrato Manuela Travaglini e lo psichiatra forense Massimo Dejana, per districare l’enigma che si cela dietro l’omicidio di una donna la cui vita inclemente si era già gravata anni prima della perdita del suo unico figlio, malato di leucemia.
Sulle dinamiche delle indagini non voglio soffermarmi, sulla trama ancor meno, vi basti sapere che Caterina Falconi conosce il mestiere, l’ha studiato per anni, affiancata da figure giudiziarie, magistrati e autori che del crime ne hanno fatto una missione di vita. Quello che in primis funziona, del romanzo di Caterina, è proprio il rispetto che si concede alla professione e di conseguenza al lettore. Viene da chiedersi quanto tempo possa essere servito all’autrice per montare quest’impalcatura letteraria che, nella sua perizia di stile e struttura, regge il peso dei temi che si porta addosso.
«Il traffico era quello di sempre, lento ed esasperante. Ma c’era un sole sbiadito che asciugava la muffa sulle facciate giallastre dei palazzi mortificati dal sisma. Nelle aiuole, sulle siepi, dalle cassette sui balconi attraversati dalle crepe, eruttava una prima e stenta fioritura. Quasi una scarica a salve. Il cielo era del turchino disturbante di marzo in Abruzzo e dentro l’abitacolo, nel tepore del riscaldamento a palla, era facile illudersi che fosse già primavera. E invece era il trentuno dicembre e circa un anno prima quelle stesse strade erano ingolfate di neve.»
Parlo di impalcatura non a sproposito perché, mentre scrivo queste righe, mi torna alla mente il frammento di un’intervista che ebbi modo di sentire tempo fa: l’autrice, in merito alla location, parlava della scelta ben ponderata di una Teramo imprigionata nelle sue fratture, sfigurata dalle crepe di una faglia impietosa, trafitta dalle architravi di metallo che sporgono sfregiando le superfici dei palazzi storici. Il noir è presente ma la sua essenza viene instillata attraverso dettagli obliqui, corridoi e palazzi somigliano a fossili congelati in un inverno perenne il cui mite riscatto pare l’ultimo dei miraggi possibili e il silenzio delle abitazioni non è poi troppo diverso da quello di una cella.
L’essere umano è qui esposto. Nudo, non solo di indumenti, le sue fratture e i suoi lividi sono sentieri del corpo che conducono ad altre questioni. La vulnerabilità non è più nella vittima, manifesto immobile di meccaniche disfunzionali che avvelenano corpo e anima di chi ne ha permesso la sua fine.
Ogni personaggio che incontriamo nel Capodanno della Falconi si porta addosso un pregresso che suscita interesse e invoglia a proseguire. La vittima sprofonda piano, in quel materassino sfatto, fagocitato nelle ombre di un istituto i cui sorrisi si limitano al solo nome, nell’indifferenza di una società narcisistica le cui maschere, ambigue e patinate, si limitano a voltar lo sguardo per mostrare il lato migliore. Alla vista di questi Eyes Wide Shut l’erotismo resta confinato in un prurito torbido da fruire nelle zone d’ombra mentre la clausura asfittica di un sadismo narcisista muove il sottotesto di questa vicenda la cui radici partono dalla terra violata. Che siano vittime consenzienti o pazienti il cui libero arbitrio è precluso dalla genetica, non pare esserci riscatto in questo mondo la cui coscienza s’è smarrita nella convinzione di appartenere a uno status quo di esseri superiori. Chiamarlo Gaslighting o manipolazione ha la sua relativa importanza, quando si tratta di vite che ne prevaricano altre, c’è poco da stare a dar definizioni, per sopravvivere tocca sporcarsi le mani. Ecco quindi che l’atto si compie nell’intento alla denuncia. La Falconi, con questa vicenda che attinge dal biografico (l’autrice lavora come maestra di ergoterapia in un istituto di riabilitazione), solleva riflessioni scomode verso un sistema lavorativo in cui la mancanza di controllo può trasformarsi in supplizio verso il recluso, se le mani che dovrebbero tutelarlo non sono mosse dalla retta coscienza.
La lingua elegante e l’utilizzo di una prosa sempre controllata amplifica il piacere della fruizione, dando modo al lettore di aver ben chiara la condotta dell’autrice. La sua lingua forbita getta le basi su una determinazione che non sceglie di adagiarsi nelle sicurezze del genere, bensì di scavare, smuovere la terra, portare in luce quelle stesse radici marce e stoppose che ne hanno permesso il cedimento iniziale. Che sia terra o coscienza umana, poco importa. Nessuna morale resta a pagina chiusa, nessuna lezioncina, semmai la costante impressione che in un mondo gremito di sadici maldestri, basta davvero poco a calpestare un petalo.
Stefano Bonazzi
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Rose di capodanno
Caterina Falconi
Vallecchi
18,00 euro — 312 pagine