Gerhard Heller, vero amante della cultura francese e antinazista, “censore che si batté perché i libri fossero pubblicati, militare – suo malgrado – che chiuse gli occhi sulle attività della Resistenza intellettuale, un tedesco attaccato al suo popolo ma affascinato dalla cultura francese”, fu a capo del Reparto Propaganda tedesco a Parigi (sezione Letteratura), negli anni dell’Occupazione tedesca (1940-1944). Da questo punto d’osservazione privilegiato, poté conoscere molti nomi di rilievo della cultura francese dell’epoca, dai collaborazionisti più oltranzisti, come Brasillach e Drieu la Rochelle, agli scrittori vicini alla Resistenza, come Paulhan. Heller ha lasciato memoria di questi incontri nel suo Un Allemand à Paris (Parigi 1981), e tra i diversi ritratti da lui tratteggiati spicca sicuramente quello di Louis-Ferdinand Céline, nel suo periodo più sulfureo.
Andrea Lombardi
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Tra i frequentatori dell’Istituto di cultura tedesco di Parigi, era impossibile non incontrarne uno: Louis-Ferdinand Céline. Era, in effetti, stimato molto da Karl Epting, il direttore dell’Istituto, e passava spesso a fargli visita. Di lui, avevo letto il Voyage au bout de la nuit e Bagatelles pour un massacre, e avevo dato l’autorizzazione alla pubblicazione de Les Beaux Draps. Ero rimasto shoccato dal suo delirio antisemita, dalle volgarità isteriche che riempivano il libro: “Giudei… controgiudei… merda semitica… insudiciatori nati dell’Europa… sporchi stronzi assurdi…” […] Ma come proibire all’epoca un libro per antisemitismo? D’altro canto, se Céline godeva del totale sostegno dell’Istituto tedesco, altre autorità dell’Occupazione giudicavano inopportuno il lasciar pubblicare dei libri così abietti. Bernhard Payr, che era una sorta di di ispettore itinerante dell’ufficio [di studi sulla questione ebraica] di Rosenberg, denunciò nel suo Phönix oder Asche? [“Fenice o ceneri?”, uno studio sulla collaborazione intellettuale franco-tedesca, edito nel 1942], o nei suoi rapporti al ministero, lo scandaloso incoraggiamento dato da Epting a un autore che con il suo antimilitarismo, le sue oscenità e la sua pornografia, trascinava nel fango tutto ciò che l’esistenza umana ha di valori positivi. Devo dire che, malgrado la mia repulsione per la violenza dell’antisemitismo céliniano, ero, con Epting, uno degli unici tedeschi in grado di apprezzare la potenza e la novità dello stile di Céline. Ero attirato da lui come da un amante. Volevo incontrarlo fuori dai luoghi ufficiali; mi recai a casa sua, sulla Butte di Montmartre, e poi andammo in un piccolo bistrot con un compagno abituale dello scrittore, l’attore cinematografico Le Vigan. Céline aveva già il volto devastato e lo sguardo allucinato, quello di un uomo che vede delle cose che altri non vedono, una specie di altra parte demoniaca del mondo. Avevamo parlato di letteratura, ma non avevo potuto impedirgli di lanciarsi in folli dichiarazioni sugli ebrei, che noi avremmo dovuto sterminare uno a uno, quartiere per quartiere, in questa Parigi che giudicava invasa e incancrenita dalla giuderia internazionale.
Céline aveva percepito la mia riprovazione, e conosceva anche il mio profondo attaccamento per Paulhan, cosicché, un giorno del giugno 1943, con un pezzetto di gesso scrisse sulla porta del mio ufficio le lettere “NRF”. Quando feci per adirarmi, mi disse “Forza, lo sanno tutti che sei un agente di Gallimard e il segretario particolare di Paulhan!”. Cavò poi di tasca due paia di occhialoni protettivi, da motociclista, ne diede uno a Marie-Louise e mi tese l’altro: “Vi serviranno, quando le città della Germania se ne andranno in fumo”. Il 3 febbraio 1945 a Berlino, in effetti, mi trovai sotto un tremendo bombardamento aereo. La città si era riempita di fumo e polvere. Avendo con me gli occhialoni di Céline, li misi e essi mi protessero gli occhi. Incontrai un’ultima volta Céline durante il mio passaggio a Sigmaringen, nel febbraio 1945. Alloggiava con la sua compagna Lili e il suo gatto Bébert in una piccola camera nell’albergo Zum Löwen. Strepitava contro tutto e tutti: Pétain, Laval, i personaggi di Vichy o i collaborazionisti parigini che si trovavano lì, gli inglesi, gli ebrei, i tedeschi, sistemandoli per le feste nel libro dove racconterà il suo soggiorno a Sigmaringen: D’un chateau l’autre. Con me fu molto gentile, e mi disse, a proposito della paralisi che mi prendeva alle braccia e alle gambe: “Te la porterai dietro a vita. Non posso darti alcuna medicina, perché, purtroppo, qui nel mio gabinetto medico non ho che della tintura di iodio”. Non aveva più alcuna illusione sul destino della Germania, e non sperava che in una cosa: lasciare quel paese e raggiungere la Danimarca. Sarà con Le Vigan, Bébert e Lili che farà questo viaggio, ritornando in Francia solo nel 1951, dopo che fu amnistiato dalla sua condanna all’indegnità nazionale del 1950. Aveva messo il suo genio al servizio di idee razziste e totalitarie; per questa perversione dei suoi doni letterari, è responsabile che il suo nome resti associato alle peggiori atrocità del ventesimo secolo. Nondimeno, la sua creazione allucinante di un mondo dominato dalle forze distruttrici della morte e della follia, il suo stile rivoluzionario, in completa rottura con la lingua forbita del francese dei secoli passati, la sua prodigiosa inventiva verbale fanno di lui, con Rabelais e Victor Hugo, uno dei giganti della letteratura francese”.
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Da Gerhard Heller, Un Allemand à Paris, Seuil, 1981.
Traduzione Andrea Lombardi