Una vita difficile fin dall’inizio: “Con sette pence e mezzo a settimana si può garantire una dieta decente a un bambino; si può acquistare un sacco di roba con sette pence e mezzo, tanto da appesantirgli lo stomaco e farlo star male. L’anziana donna era però un tipo saggio ed esperto, sapeva ciò che andava bene per i bambini, e sapeva altrettanto bene cosa andava bene per lei. E così si riservava per il proprio uso personale la maggior parte del sussidio settimanale, limitandosi a spendere per la generazione in crescita della parrocchia una somma assai minore di quanto in origine era stata prevista per loro, trovando nel più basso abisso un punto ancora più profondo, e rivelandosi una grandissima filosofa, seguace del metodo sperimentale”.
È in libreria Le avventure di Oliver Twist di Charles Dickens nella nuova traduzione di Livio Crescenzi e Mattia Maglione (Mattioli 1885 2023, pp. 528, € 25,00).
Pubblicato nel 1837 e ambientato a Londra, Le avventure di Oliver Twist narra le fortunate peripezie del giovane omonimo, un orfano dai natali oscuri che, all’età di nove anni, evade dall’istituto che lo ha visto crescere, trovandosi immerso nelle grinfie di una gang di malviventi. Il semplice atto di chiedere una modesta porzione in più di cibo gli vale la dubbia fama di agitatore sociale. Le sue avventure prendono così il via, intrecciandosi con le vicissitudini di altri personaggi, tutti alle prese con la cruda battaglia per la sopravvivenza. Momenti comici e grotteschi si mescolano a tenebrose illustrazioni, arricchite da taglienti osservazioni politiche e sociali. Il romanzo si configura come un intricato mosaico di diverse convenzioni di genere, magistralmente plasmate da Dickens per sfidare le aspettative dei lettori.
Uno stile elevato anche in passaggi inquietanti: “Il comitato, seguendo un esempio così saggio e salutare, si consultò sull’opportunità d’imbarcare Oliver Twist a bordo di una qualche piccola nave mercantile diretta verso un porto malsano. Un’idea sorta del tutto spontaneamente, come la soluzione senz’altro migliore da adottare con Oliver, essendo del tutto probabile che, prima o poi un bel giorno, in vena di scherzi, il comandante lo avrebbe fustigato a morte, o gli avrebbe spappolato il cervello con una sbarra di ferro, essendo entrambi questi passatempi, com’è ben risaputo, svaghi molto amati e comuni tra i gentiluomini di quel ceto sociale.”
I romanzi di Dickens denunciano una modernità industriale che schiaccia le speranze, annienta ogni forma di bellezza e costringe i figli a confrontarsi con l’irresponsabilità dei padri, assumendo spesso il ruolo di genitori nei loro confronti. Tema di grande attualità nell’epoca della rivoluzione digitale.
Il romanzo incarna alla perfezione il principio teorizzato da Dickens per mantenere l’attenzione del lettore: «falli ridere, falli piangere, falli aspettare».
Forse anche per questo Vladimir Nabokov, nelle sue Lezioni di Letteratura, di Dickens scrisse: «modern authors still get drunk on his vintage» (gli autori moderni si ubriacano ancora dei suoi scritti pur essendo di quasi due secoli fa).
Un romanzo classico e imperdibile che oggi possiamo assaporare in una nuova traduzione.
Carlo Tortarolo
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Tra i diversi edifici pubblici di una certa cittadina, che per molte ragioni è più prudente non menzionare e a cui non intendo affibbiare un nome fittizio, ce n’è uno che sin dai tempi dei tempi è comune alla maggior parte delle città, grandi o piccole che siano: vale a dire, l’ospizio dei poveri, ed è proprio in questo istituto che, in un giorno e un anno che non voglio precisare in quanto di nessuna importanza per il lettore, almeno in questa fase del racconto, nacque la creatura mortale il cui nome è riferito nella testatina di questo capitolo.
Per un bel pezzo, dopo che il chirurgo della parrocchia l’aveva scodellato in questa valle di lacrime, rimase assai in dubbio se il bambino sarebbe sopravvissuto tanto da portare un nome, nel qual caso queste memorie non sarebbero mai apparse; oppure, in caso contrario, avrebbero potuto vantarsi dell’inestimabile merito d’essere l’esempio di biografia più conciso e fedele che sia mai esistito nella letteratura di qualsiasi epoca o paese.
Anche se non me la sento di sostenere che venire al mondo in un ospizio dei poveri sia di per sé la circostanza più fortunata e invidiabile che possa capitare a un essere umano, devo però ammettere che, in questo caso particolare, per Oliver Twist fu la cosa migliore che gli potesse accadere. Il fatto è che fu assai difficile convincere Oliver ad assumersi il compito di respirare, – un esercizio alquanto fastidioso, ma che la consuetudine ha reso necessario per poter sopravvivere; per cui per un po’ di tempo il bambino rimase a boccheggiare su un materassino di cascami, piuttosto in bilico tra questo mondo e l’altro: la bilancia decisamente a favore del secondo. Ora, se durante questo breve periodo, Oliver fosse stato circondato da uno stuolo di nonne attente, zie ansiose, infermiere esperte e dottori capaci, sarebbe stato ucciso in pochissimo tempo, cosa inevitabile e senza la minima ombra di dubbio. Non avendo nessuno accanto, però, se non una povera vecchia, piuttosto annebbiata da una quantità eccessiva di birra, e un chirurgo della parrocchia che si occupava di queste faccende per soldi, Oliver e Madre Natura furono costretti a sbrigarsela tra loro. Il risultato fu che, dopo aver lottato, Oliver respirò, starnutì e annunciò ai residenti dell’ospizio il fatto che un nuovo fardello era ricaduto sulla parrocchia, lanciando un urlo, molto più forte di quanto ci si potesse ragionevolmente aspettare da un esserino che, sino a tre minuti e quindici secondi prima, non sapeva di avere quell’utilissima funzione della voce.
Dunque, mentre Oliver dava questa prima dimostrazione del funzionamento automatico e corretto dei propri polmoni, la coperta di pezzi di stoffa cuciti insieme, gettata con noncuranza sul letto di ferro, produsse un fruscio. Dal cuscino si sollevò a fatica il volto pallido di una giovane donna e una debole voce sussurrò a stento le parole: “Fatemi vedere il bambino… e morire.”
Il chirurgo se ne stava seduto con il viso rivolto verso il fuoco, scaldandosi e massaggiandosi volta per volta i palmi delle mani. E non appena la giovane parlò, s’alzò e, avvicinandosi alla testata del letto, disse con più gentilezza di quanto ci si potesse aspettare da lui:
“Oh, non devi ancora parlare di morire.”
“Il Signore la benedica, povera figliola, no!” s’intromise l’infermiera, infilandosi in tasca di fretta una bottiglia di vetro verde, il cui contenuto con evidente soddisfazione aveva assaporato in un angoletto riparato.
“Il Signore la benedica, povera figliola, quando avrà vissuto quanto me, dottore, e avrà avuto tredici figli – e sono morti tutti tranne due, e anche loro stanno nell’ospizio con me – saprà prenderla meglio che in quel modo, benedetta figliola! Pensa cosa vuol dire essere mamma, c’è un caro agnellino cui badare.”
A quanto pare quest’immagine consolatoria delle prospettive di una madre non riuscì a produrre l’effetto desiderato. La paziente scosse la testa e sporse la mano verso il bambino.
Il chirurgo lo adagiò tra le braccia della donna, che premette con affetto le gelide labbra esangui sulla fronte del neonato, si passò le mani sul viso, si guardò attorno disperata, fu scossa dai brividi, ricadde sulla schiena e morì.