Benvenuto su Satisfiction   Click to listen highlighted text! Benvenuto su Satisfiction

Cheon Myeong-Kwan anteprima. Whale

Home / Anteprime / Cheon Myeong-Kwan anteprima. Whale

Un umorismo oscuro e goffo: “Lo scemo che era rimasto nella sua stanza fino a quell’istante arrivò nel cortile piangendo e chiamando il nome della domestica, ignaro del perché fosse stata trascinata via. Anche lui, come la domestica, era completamente nudo. Fu in quel momento che sua madre, la padrona, e tutti i servi della casa si accorsero dell’enorme randello di carne che penzolava dall’inguine dello scemo”.

È in libreria Whale di Cheon Myeong-Kwan tradotto da Rosanna De Iudicibus (Edizioni E/O 2023, pp. 400, € 19,00).

Myeong-Kwan Cheong è nato nel 1964 nel Gyeonggi-do in Sud Corea. Prima di diventare scrittore è stato sceneggiatore cinematografico per film quali Gun and Gun (1995) e The Great Chef (1999). È a 40 anni che, spinto da suo fratello, scrive il suo primo racconto breve Frank and I pubblicato nel 2003, seguito subito dopo da Whale. Quest’opera è stata acclamata dalla critica e ha vinto il decimo Munhakdongne Literature Award nel 2004, diventando un classico contemporaneo nel suo paese d’origine.

Whale è un ampio racconto del XX° secolo che segue la vita di Geumbok, una giovane coreana di montagna intraprendente e ambiziosa, che prospera grazie al suo potente impatto sugli uomini e a un innato senso degli affari.

Immerso nella pittoresca Corea del Sud, il romanzo segue le storie dei suoi protagonisti mentre si intrecciano in un mondo magico creato da Myeong-Kwan Cheong. Una madre vende sua figlia a un viaggiatore di passaggio in cambio di due barattoli di miele. Una neonata da quindici chili nasce nel cuore dell’inverno e viene chiamata Chunhui “donna della primavera.” Una tempesta sconvolge un decrepito ristorante, rivelando una fortuna nascosta.

Geumbok, da sempre insegue una sensazione indescrivibile che provò la prima volta che avvistò la cresta di una balena in mare: “una creatura eterna in grado di sconfiggere la morte”. Sua figlia Chunhui, è muta e comunica solamente con gli elefanti; mentre un’altra donna sa addomesticare le api con un semplice fischio.

Cheon, che è uno sceneggiatore oltre che un romanziere, si avvale della tecnica televisiva di segnalare in anticipo una catastrofe successiva che alla fine chiude il cerchio dell’azione.

Attraverso questa nebbiosa linea temporale, emerge un tema toccante sui peccati delle madri, mentre le nozioni filosofiche sfiorano il comico – ” Un pene lungo non è sempre necessario.” – e il profondo: “Vivere significa spazzare via la polvere che si accumula”. Viene anche creato un legame tra il realismo magico e la storia orale: “Esiste davvero una verità oggettiva? Quanto è credibile una storia che gira il mondo passando di bocca in bocca?”.

Non mancano spunti sadici: “La vedova, che aveva un brutto carattere e mancava di compassione, si affacciava ogni due o tre giorni a trovare la vecchia e le diceva, senza peli sulla lingua: «Oddio, come fa una vecchia a cagare così tanto?», «Mangi poco o nulla, da dove arriva tutta questa merda?»”.

In definitiva, il romanzo si distingue per l’atmosfera multisensoriale di stranezza e per una protagonista combattuta che rifiuta di accettare la banalità. “vivo sempre secondo un certo principio”, afferma Geumbok.: “Le cose piccole e umili sono imbarazzanti”.

Carlo Tortarolo

#

Chunhui è il nome della fabbricante di mattoni, conosciuta da tutti come la “regina dei mattoni rossi” dopo che l’architetto del Gran Teatro l’ebbe presentata al mondo con quel nome. Era nata da una senzatetto in una stalla, in inverno, verso la fine della guerra. Quando venne al mondo pesava già sette chili e prima di compiere quattordici anni il suo peso superava i cento. Chunhui, muta, crebbe in un mondo di isolamento e imparò tutto sulla fabbricazione di mattoni dal padre adottivo Mun. Quando si verificò un incendio che costò la vita a più di ottocento persone Chunhui fu arrestata con l’accusa di essere un’incendiaria e portata in prigione. La detenzione fu terribile per lei, ma dopo aver scontato la pena Chunhui tornò alla fabbrica di mattoni. A quell’epoca aveva ventotto anni.

Era una mattina d’estate in cui il sole, vicinissimo alla terra, era così bollente da poter sciogliere la ghisa. Chunhui, con la sua uniforme azzurra da carcerata, stava in piedi al centro della fabbrica di mattoni. La pompa dell’acqua in mezzo al cortile era già asciutta da tempo e sul terreno ristagnava ben visibile l’acqua sporca di ruggine colata dalle tubature. Intorno alla fornace, portulaca, cardi, steli di artemisia alti più di una spanna e altre erbe selvatiche avevano penetrato il terreno compattato e indurito dai passi pesanti degli operai, e crescevano folte in un groviglio. La camomilla selvatica, che inizialmente cingeva il perimetro della proprietà come un gruppo di soldati di guardia a una fortezza, dopo la scomparsa dei proprietari della fabbrica vi si era furtivamente infiltrata fino a occuparla del tutto. L’edificio della fabbrica (ormai così fatiscente da essere difficile definirlo tale) si estendeva in lunghezza e si limitava a un paio di fornaci e a una casa costruita con un’accozzaglia di tavole di legno e lastre di ardesia. Mentre Chunhui era stata via, però, la struttura della fabbrica era in gran parte crollata o era andata distrutta. La camomilla fioriva incontrollata nelle fessure delle fornaci in rovina, fra le assi del pavimento della casa e sulle lastre ondulate di ardesia ricoperte di muschio. Era la legge della natura.

Chunhui entrò a piedi scalzi nel cortile in cui aveva giocato molto tempo prima. Del pioppo che un tempo cresceva rigoglioso accanto alla pompa dell’acqua era rimasto solo un tronco marcito dalle radici spezzate, su cui al posto delle foglie si inerpicava un grosso grappolo di funghi cardoncelli. La puzza di sudore degli operai che avevano affollato la fabbrica e tutto il trambusto erano scomparsi, e ora nell’ampio cortile c’era solo Chunhui. Tornando lì aveva cercato con affanno l’immagine di quei luoghi che le erano mancati al punto da stringerle il cuore. Aveva cercato ostinatamente qualche traccia di presenza umana nella fabbrica. Con il tempo e l’erosione del vento e della pioggia, però, non era rimasto più niente.

«Vivere significa spazzare via la polvere che si accumula». Erano le parole di una carcerata dalla faccia coperta di lentiggini che divideva la cella con Chunhui. Aveva dato del cibo avvelenato col cianuro alle due figlie e al marito, ed era stata condannata alla pena di morte per omicidio. Per questo motivo le compagne di cella la chiamavano Cianuro. Fino a poco prima dell’esecuzione capitale, Cianuro non aveva mai smesso di spazzare la polvere nella cella. Le compagne la deridevano, chiedendole perché una condannata a cui non rimaneva che qualche giorno di vita si preoccupasse di pulire, e ogni volta Cianuro rispondeva con quella frase, passando lo straccio sul pavimento. Aggiungeva anche: «La morte non è nulla di che. È come spazzare la polvere». Chunhui non aveva mai capito con esattezza cosa significasse, ma per qualche ragione quel giorno, mentre camminava verso le case ormai in rovina, improvvisamente le erano tornate in mente le parole enigmatiche di Cianuro.

Click to listen highlighted text!