Resta indifferente a ogni richiamo di sobrietà limata e pagina in sottrazione, Francesco Permunian, che con Chi sta parlando nelle mia testa (Theoria) decide di riscrivere una sua opera precedente, Dalla stiva di una nave blasfema – uscita per Diabasis nel 2009 con titolo preso da Gombrowicz a sottolineare analogia con la scrittura diaristica, intima, del grande autore polacco – per operare su linguaggio e visione.
Attraverso una “conoscenza per ardore”, Permunian (s)offre una ridda di personaggi ad affollare in viscerale horror vacui la propria esistenza presente e passata, voci di morti amati che premono in questa Spoon River individuale e che gli parlano in testa, si ripresentano, mentre altre si sommano urgenti, imponendogli una formale coazione a ripetere, che si traduce, opportuna, in un dichiarato antiromanzo. Antiromanzo perché sfugge da maglie serrate di trama e costruzione compiuta e conchiusa e perché affine spesso a un lirismo puro e doloroso, traduzione di una dichiarata ossessione (“io insisto a scrivere e a riscrivere questa sorta di poema di demoni e ombre”).
Attinge a una provincia – veneta, ma universale – che deve inventarsi ogni giorno qualcosa di cui parlare, Permunian, il suo complesso immaginario: narra di librai suicidi, gemelli in odore di incesto, zitelle beghine, dandy di mezza tacca, promesse di matrimonio infrante, peccati pruriginosi. Tra figure di mito locale, forse vere, forse non proprio, certamente amplificate sotto la lente personale dell’autore, trovano spazio pagine personali dell’infanzia di Permunian, atipica (con la salvezza delle acque del Po nella più tremenda delle alluvioni) e conseguenze tangibili sul suo narrato, boccacceschi episodi di famiglia con cugini contesi da moglie e amante sulla pubblica piazza e una toccante sorta di elegia nel bellissimo capitolo dedicato al funerale laico del padre comunista.
Ritrova poi crudeltà, rigore e intransigenza, quando bacchetta fino a scarnificare ogni vanità intellettuale di “scrittori” che fanno del plagio e della mistificazione l’unico loro misero talento, e nel farlo coglie modo di nominare i propri padri intellettuali (Bernhard e Manganelli, ma si avvertono anche Artaud e Cioran, come ricorda Andrea Caterini nella puntuale postfazione). Come nei libri precedenti – Il principio della malinconia, La casa del sollievo mentale, Il gabinetto del dottor Kafka, tra gli altri – si prepari il lettore a una ripetuta crudezza di immagini: non teme Permunian di attingere alla carne e alla terra, terra in cui sono sepolti senza riposo i suoi estinti.
In quel cogliere e esaltare l’assurdo onnipresente, l’insensato inevitabile di Permunian, diventa legittimo e naturale che queste anime riprendano vita: “Il petulante silenzio dei morti, che chiacchierano e litigano all’insaputa dei vivi, ecco come io spreco i giorni, in ascolto di voci e rumori che esistono solo nella mia testa. E nel frattempo, sperduto dentro un immane brusio di fantasmi, scrivo e riscrivo questo folle antiromanzo, questa maldestra registrazione di sogni e deliri scambiati un dì per idee e progetti. Contro il gelo, contro la stupidità, contro il silenzio, io rimango comunque avvinghiato alle parole. Solamente la parola può distruggere o salvare un uomo come me”.
Questa, la voce che si eleva suo malgrado sopra tutte le altre e in definitiva rimane, questo ciò che conta.