Jan Nedoma, medico, muore. Alla compagna ma soprattutto ai tre figli che gli sopravvivono, Hans, Emil e Katerina, testimoni impotenti del suo inarrestabile spegnersi, oltre al dolore devastante resta un compito inatteso: restituirne intera la figura, macchiata da sospetti – illazioni, a loro dire – di corruzione e di collusione con un governo comunista mal visto nella Repubblica Ceca dove è ambientata la vicenda. Non collima l’immagine di uomo affidabile e integerrimo con ciò che vengono loro malgrado a sapere tramite le parole scritte di un sedicente amico, che lo accusano di bontà di sola facciata, di un’adesione al cristianesimo apparente e ipocrita, patina immacolata a celare crimini inconfessati.
È direttamente al padre che i tre figli dovrebbero e vorrebbero rivolgere molte domande sulle sue scelte e comportamenti. Quesiti a regime di urgenza che travalicano presto il confine della ricerca intima, familiare, e assumono tono di interrogativi universali, atemporali.
Chiedi a papà (Miraggi edizioni) è tentativo duro, a volte dolce, a tratti straziante, di porre rimedio e portare cura a ferite slabbrate, assenze improvvise, silenzi da infrangere, nell’equilibrio incerto della manutenzione del dolore personale per la perdita e la ricerca di risoluzione, sia essa pacificante o perturbante.
Tradotto per la prima volta in Italia da Alessandro De Vito, Jan Balabán – vincitore due volte del prestigioso premio Magnesia Litera e scomparso a 49 anni poco prima della pubblicazione di questo romanzo – sceglie con grande cura la costruzione più adatta: la trama deflagrata, unica modalità possibile a rendere lo sfaccettato, in assenza di definitivo.
Si muovono tra frammenti del passato e tentativi di conoscenza, figli e moglie del dottor Nedoma (“senza casa”, il significato del cognome), ognuno percorrendo strade personali da confrontare – in tiro incrociato – con quelle degli altri, attraverso una ricerca che si fa analisi lucida dei propri, di vissuti. (Il reparto del collega di papà endocrinologo era nello stesso edificio e allo stesso piano dove Katerina aveva trascorso parecchie settimane e mesi della sua vita di bambina e ragazza. Il pomeriggio, all’ospedale, è un tempo triste. Al mattino e fino all’ora di pranzo succede sempre qualcosa, si vanno a fare le visite, si ricevono cure. Ma al pomeriggio quasi tutte le infermiere e i medici se ne vanno […]. Al pomeriggio si aspetta solo che giunga la sera, quando sarà possibile andare a dormire. Ma come fare a sopravvivere a quelle lunghe ore di inutile luce, quando lo spirito ronza come una mosca sul riquadro della finestra e si devono trattenere le lacrime, col terrore che ormai tutta la vita non sarà che un simile infinito pomeriggio, in cui non si riuscirà più a vedere nessuno? E se arriva una visita, hai già paura di quanto sarai triste quando se ne andrà. Per questo Katerina non aveva voluto fare il medico, per non dover vivere in quel triste mondo pomeridiano, esortando le persone a essere pazienti. Lei è stata impaziente tutta la vita. E ora, impazientemente, era in ascolto delle parole del collega di suo padre, a cui aveva chiesto che cosa stesse cercando di insinuare quel Wolf con le sue maledette lettere).
Tocca registri diversi e affinati, Balabán, a comprendere quello ironico, intimo e complice negli scambi secchi tra fratelli, fino allo spietato, essenziale e trattenuto nel riportare – senza descrivere – il dolore in pagine crude, essenziali e chirurgiche che potrebbero essere firmate da Agota Kristov.
Narra il fallimento e la caduta, i giri a vuoto, le inutili conversazioni sui bordi, quando manca il centro, le umane debolezze, l’assenza del gesto che cura (Vide di nuovo il giallo di cera di quello che ancora il giorno prima era stato suo padre. Come stavano davanti a lui con le mani pesanti e inutili i parenti, con l’angoscia e con il sollievo, come davanti a un libro che si è finito di leggere).
Annoverato tra i più interessanti scrittori degli ultimi anni, paragonato più volte a William Faulkner, era uno scrittore ceco anomalo, Balabán, forse perché lontano geograficamente dalle affascinanti atmosfere praghesi cui si è soliti fare riferimento (ha vissuto in una piccola città mineraria): è buona cosa che il suo nome compaia tra quelli di NováVlna, la collana con cui Miraggi sta portando in Italia i maggiori rappresentanti della letteratura contemporanea ceca – tra cui Bianca Bellova -, esempi spesso felici di un’eredità di scrittura ironica, grottesca, surreale consolidata come poche altre.