Esca di Chris Offutt è uno dei racconti che compongono Al fiume, raccolta di “venticinque scrittori sulla pesca”, pubblicata da Jimenez con le traduzioni di Martina Franzini, Beatrice Caserini, Ludovica Marani ed Edoardo Vicario. Programmaticamente, quindi, il volume mette insieme contributi di Ron Rash, William Boyle, Scott Gould e, appunto, Chris Offut, tra gli altri, alle prese con uno dei temi che ha sensibilmente ispirato trasversalmente la letteratura americana – da Hemingway a Raymond Carver – di volta in volta spunto per narrazioni che vanno ben oltre la semplice pratica di questa attività. Anche in questo libro, infatti, la pesca funge da “pretesto” per parlare di temi basilari, oltre che occasione per un omaggio ai luoghi più solitari e selvaggi degli Stati Uniti. Così, si susseguono piccole grandi vicende che prendono di volta in volta la forma delle storie di formazione, assumono tinte tragicomiche o, anche, fanno da volano per riflessioni sulla scrittura. In questo Esca, Offutt si conferma ancora una volta un grande maestro della scrittura dell’America contemporanea.
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A essere del tutto onesti non cammino per un bosco con un fucile in mano da quando ho lasciato le colline del Kentucky. La mia tecnica di pesca consiste nelmettere l’esca sull’amo, lanciare la lenza e guardare il galleggiante finché non mi stufo: di solito dopo quaranta secondi. C’è sempre qualcosa di meglio da guardare. La luce del sole sull’acqua, le nuvole che vagano nel cielo, o gli uccelli che mi guardano mentre li guardo. La parola stessa, “galleggiante”, è in realtà di un ottimismo ingannevole.
Il più delle volte non c’è nessun galleggiamento. Se ne sta fermo finché non va alla deriva contro qualche ostacolo. Di solito appoggio la canna da pesca su una forcella, poi vago lungo la riva in cerca di rocce interessanti. Quando da bambino vivevo sulle colline, dopo una pioggerella serale raccoglievo lombrichi portando con me una torcia e un secchiello.
Nel Mississippi la mia tecnica di approvvigionamento lombrichi si è dimostrata inefficace. Chissà, forse mi serviva un rilevatore di lombrichi elettronico! Credevo di avere perso la mano, o forse qui i lombrichi erano abbastanza furbi da evitare gli umani. Alla fine, in un atto di tradimento rurale, mi sono deciso a comprarli. È un po’ come con i guanti da lavoro: se hai bisogno di metterli perché non vuoi sporcarti le mani, forse dovresti lasciar perdere.
Il negozio più vicino a casa mia vende benzina, propano, ghiaccio, carbonella, birra, latte, Pringles, würstel e un assortimento di merendine Little Debbie. Una volta a settimana hanno i corn dogs. Su uno scaffale in basso ci sono due giubbotti salvagente da bambino, arancione brillante e coperti di polvere. Sono lì da almeno tre anni perché qui i bambini imparano in fretta a cavarsela da soli. In Mississippi i genitori coccolano i loro figli, tanto che aspettano il loro ottavo compleanno per regalargli la prima pistola. (In Kentucky i bambini li armiamo già a sei anni.)
Il reparto più grande del negozio è dedicato all’attrezzatura da pesca. Con due dollari puoi comprarti un chilo di terra in un contenitore di polistirolo e dodici lombrichi. Sono vermi così lunghi che puoi avvolgerli tutto intorno all’amo e te ne avanza ancora un pezzo da far penzolare in acqua, oppure puoi dividere ogni verme a metà e rimanere a pescare il doppio del tempo. Io che sono taccagno di solito scelgo la seconda opzione. (Il record per il lombrico più lungo di sempre è di sei metri e settanta centimetri, trovato in Sudafrica nel 1967. Ci stanno ancora pescando.) Di recente ho chiesto al commesso del negozio da dove arrivano i lombrichi