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Christian Oster, il Beckett postmoderno.

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Avventuriero della lingua e narratore della solitudine, Christian Oster è considerato uno dei più raffinati scrittori francesi del secondo ‘900.
Nato nel 1949, prima di darsi alla scrittura per lunghi anni ha fatto i mestieri più diversi: bidello in un liceo, commesso in una libreria, correttore di bozze, scrittore di gialli,  ma solo  nel 1989 pubblica il suo primo romanzo “Volley-ball”. Da allora ne seguiranno altri tredici, tra cui “Il treno”, la storia di un uomo che passa il suo tempo alla stazione a guardare partire la gente (Nottetempo Edizioni)  e “Il mio grande appartamento” (Barbès Editore) il suo romanzo ad oggi più conosciuto, tradotto con grande successo in Inghilterra, Stati Uniti e Germania e vincitore del Prix Médicis.
Oster tratta storie minime, ordinarie, ma con tono compiaciuto e uno stile solitamente riservato alle dissertazioni dotte. Il suo è un linguaggio ricco di termini tecnici e di incisi, come se volesse perfezionare sempre meglio il ragionamento, ottenendo così un effetto spesso volutamente paradossale, tanto che la critica francese l’ha spesso paragonato a Beckett.
La sua scrittura “è una corsa tra i meandri strani della logica” scrive L’Humanité a proposito di “Nella Cattedrale” in uscita il 25 gennaio nelle librerie italiane per l’editore Barbés.
Attraverso l’esilio del protagonista Jean nella Beuce francese, Oster riesce a condurci nel cuore di uno smarrimento esistenziale  che ricorda le favole stralunate di Aki Kaurismaki e di Arto Paasilinna.
Marta Dosi

 
 
È in quel momento, credo, quando ebbi richiuso la porta, che ho deciso più o meno di andarmene.
La cosa si è manifestata dapprima tramite la mia incapacità, mentre restavo di fronte alla porta richiusa, di girarmi verso la stanza. Era chiaro che ai miei occhi, in quel momento, ciò che si trovava dietro di me nello spazio rappresentava assai precisamente ciò che si situava di fronte a me nel tempo, ed è ciò che ora esitavo a contemplare. La defezione di Paul, probabilmente, c’entrava qualcosa, ma ancora una volta la sensazione di sgretolamento che provavo risultava da molte altre cause, che convergevano tutte verso la coscienza di una perdita progressiva e della necessità in cui mi trovavo di reagire. E mi girai verso la stanza,
in realtà, alla fine, ma fu con l’idea di preparare una specie di valigia. Vale a dire che la partenza, nella mia mente, non era legata al momento a una qualsivoglia  destinazione. Credo che volessi solo lasciare l’appartamento. Sentivo perfettamente che era rischioso, anche. Mi ripresi, dunque. Dovrei forse in primo luogo ordinare le mie ragioni per andarmene, mi dissi. Ma, me ne accorsi, avevo soprattutto bisogno di azione. E, eventualmente, è vero, di confidare a qualcuno che provavo un bisogno simile.
La prima persona che mi venne in mente, a questo riguardo, non potendo dialogare con Paul, fu Marianne, sebbene avessi ugualmente pensato a Marthe, che, del resto, non era ovviamente disponibile per sentirmi. Marianne, quindi, mi dicevo, che esitavo a chiamare, tuttavia, perché, mi rendevo conto,  ciò che avevo da dirle non era per nulla piacevole. Era
però proprio a lei che dovevo confidare, particolarmente, la cosa si confermava, che non volevo più vederla – il che era, anche questo trovava conferma, presentemente al di sopra delle mie forze. Ora è in quel momento che lei mi chiamò, e io risposi. Pronto, dissi con voce neutra, come va? È a te che bisogna chiederlo, mi rispose, non ho notizie da tre giorni.
Mi dispiace, dissi, ma io non ho notizie di Paul da cinque ore, adesso, sono preoccupato, vedi, è scomparso al cimitero, perché è morta una persona, non te ne ho parlato, non lo conosci, ci sono andato con lui stamattina. Mi pare confuso, disse. Non so che dirti.
Avresti potuto chiamarmi comunque. Si, dissi, non ti ho chiamata. E come lo spieghi? mi disse. Sono turbato, dissi. E allora? Perché non me ne parli? Te ne parlo, dissi, e tacqui. Pronto? disse. Sì, dissi, sono qui, neanch’io so cosa dirti. Divertente, disse. No, dissi, non è divertente, sto per dirti una cosa, in realtà. Ti ascolto, disse. Credo di preferire che non ci vediamo più, dissi. Eh? disse. Me lo puoi spiegare? Difficilmente, dissi. Allora vediamoci, disse. No, dissi.
Come mai? disse. Non lo so, dissi. Non stai bene per niente, tu, disse. Sì, dissi, sto benissimo ma in realtà no, ne ho abbastanza, aggiunsi, devo staccare, scusami per il termine, sai che lo detesto. Prego? disse. In questa accezione, dissi. Smettila, Jean, smettila immediatamente. Non ti riconosco. Tanto peggio, dissi. No, disse, è grave. No, dissi, non è grave, bisogna giusto che me ne vada e che non ci vediamo più. Non hai bisogno di andartene per questo, disse. No, dissi, ma ho bisogno di non vederti più per andarmene. Ti faccio paura? disse. No, dissi, non c’entra niente. Ascolta, Jean, sei suonato. Sei sgradevole. Forse, dissi. Ti lascio, disse. Benissimo, dissi, anch’io. Ti ricordo che hai delle cose tue a casa mia. Le metto sul marciapiede o passi a prenderle? Per me è uguale, dissi. Ok, disse. Aspetta, dissi. Che? disse. No, niente, dissi, e lei riattaccò.
Mi parve che avessimo trovato un accordo. Mi sembrò anche che non fossimo tristi, ma non era certo. A ogni modo, ciò non sistemava veramentela questione della mia partenza. Dato che Marianne non mi tratteneva più, sentivo vagamente la mancanza di quell’impedimento che permette talvolta, contraddittoriamente, di darsi la spinta per lanciarsi. Era stato fatto tutto un po’ in fretta, in fondo, e senza sufficiente resistenza. Ma insomma era fatto e non vedevo più bene cosa mi trattenesse qui. Cominciai a riempire una borsa, di che star via tre giorni, poi mi dissi che non era abbastanza, che non sarei mai tornato dopo tre giorni e che mi ci voleva una borsa più grossa. Il mio problema era che non avevo la macchina. Ignoro perché non pensai dapprima nemmeno a noleggiarne una. Alla fine tenni la prima borsa, dopotutto ho la carta di credito, mi dissi. Consultai, in piedi, dei siti di turismo su Internet. Poi mi sedetti,
comunque, mi ci voleva un po’ di tempo. Feci qualche telefonata. C’era un albergo a centocinquanta chilometri a sud-ovest di Parigi, in un borgo servito dal treno, abbastanza privo di interesse, mi sembrò.
Tre giorni, dissi all’albergatore. Per cominciare.
Christian Oster, “Nella Cattedrale”.

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