Snakehunter, che esce ora da Jimenz nella perfetta traduzione di Nicola Manuppelli, è il primo romanzo di Chuck Kinder, pubblicato per la prima volta – con successo – negli Stati Uniti nel 1973. È quello che si definisce un romanzo di formazione e, allo stesso tempo, una grandiosa narrazione del Midwest americano nel corso degli anni ’40 del Novecento, ritagliato sul profilo di un bambino che ha l’ossessione per i serpenti e delle tartarughe, oltre che dell’acqua e dei pesci, e la cui infanzia – inscritta in una famiglia matriarcale in cui compare una zia alcolizzata, un padre morto in guerra, una madre bella come una diva Hollywoodiana e una sorella con il volto devastato dal cancro – è scandita da avvenimenti tragicomici. Nel racconto costruito da Kinder si affacciano personaggi che, per un motivo o per l’altro, sono destinati a lasciare un’impronta indelebile nella mente del bambino, accanto al quale c’è la figura premurosa del nonno. La scrittura di Kinder, che all’epoca era ventenne, si presenta in questo primo romanzo già fortemente connotata, all’insegna di quel realismo denso di simbologie che è poi diventata la sua cifra stilistica distintiva.
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Ora, a proposito di Tarzan. A proposito di come il suo corpo si inarcava mentre si tuffava dalle alte scogliere nell’acqua pericolosa sottostante. Acqua pericolosa e profonda: un lago senza fondo, dicevano gli indigeni. Per molto tempo,Tarzan nuota sott’acqua, apparentemente sospeso nel centro fluido dello schermo. I suoi occhi, sporgenti come quelli di un rospo, rimangono sempre aperti e vigili. Come una strana pianta acquatica che sboccia, i suoi capelli ondeggiano e gli svolazzano sulla testa. Quando alla fine riemerge,si trova all’interno di una grotta, le cui umide pareti di roccia si arrampicano in alto, fuori dalla vista, nell’oscurità. Aggrappandosi con le braccia a una sporgenza, Tarzan prende un meritato respiro. Tutto accade in modo rapido, con nient’altro che un fremito dei muscoli Tarzan viene trascinato di nuovo in acqua. Sebbene sbracci disperatamente per liberarsi dei tentacoli che lo avvinghiano, questi si aggrovigliano piano, trascinandolo sempre più in profondità nell’acqua scura, verso gli enormi occhi brillanti della creatura. Occhi fissi, gialli, luminosi. Eppure, non c’è odio in quegli occhi terribili. E quando finalmente Tarzan si fionda verso di loro, non c’è traccia di paura. E nessun dolore evidente quando il coltello di Tarzan li taglia. E mentre la schiuma color inchiostro sgorga dalle loro ferite, quegli strani occhi non danno alcun segno di terrore, o rabbia, o addirittura rimpianto.
Lei ha i capelli biondi e morbidi. I suoi occhi azzurri sembrano quasi troppo grandi per il suo bel viso ovale. Gli inquietanti guerrieri d’argilla la trovano nascosta nella foresta sommersa e, dato che Flash non è lì per difenderla, viene catturata senza fatica. Mentre cerca di liberarsi dalle loro dita friabili, i muscoli lunghi e delicati delle sue braccia e delle sue gambe si flettono. La sua uniforme, corta all’inizio, è statastrappata in diversi punti durante la lotta. Ora, un’ampia sezione del suo ombelico, la sua spalla sinistra e il morbido gonfiore superiore del suo seno sinistro sono nudi. Nelle profondità delle loro caverne nascoste, il popolo d’argilla la incatena a un pilastro dove, anche mentre guardo, il terreno bagnato inizia a inghiottirla affamato. Come il movimento della muffa sul pane umido, l’argilla spugnosa si diffonderà sulla sua carne bianca fino a quando anche lei diventerà una donna d’argilla:senza lineamenti, muta, uno zombi di terracotta. Ora, nella nostra città c’erano due cinema: il Kayton e l’Avalon. La bella ragazza bionda era tenuta prigioniera nel Kayton, dove, in quello strano limbo tra le bobine in serie, era costretta ad aspettare la fuga a cui era destinata. Ma io non riuscii a vederla scappare. Il fine settimana successivo alla cattura della ragazza al Kayton, era in programma un film di Walt Disney all’Avalon.I film Disney sono ottimi per i bambini; non sono solamente educativi, ma stimolano anche la loro immaginazione. Inoltre, come faceva notare mamma, la bionda ce l’avrebbe fatta; le bionde se la cavavano sempre nei film seriali. Ma questo lo sapevo benissimo, e non era certo il punto. Vedere se sarebbe scappata o meno non aveva nulla a che fare con ilmotivo per cui non volevo perdermi il seguito. Quel che contava, invece, era il fatto che la ragazza bionda, spaventata, indifesa, era legata a quel pilastro mentre la sua carne veniva inghiottita dall’argilla. Il punto era come avrebbe lottato disperatamente per liberarsi. Come la sua uniforme si sarebbe strappata. Era il rigonfiamento superiore del seno sinistro. Era il modo in cui sedevo nel cinema buio a guardare da lontano in silenzio.