a Robert Walser
Da qualche tempo lo assaliva il desiderio di tornare a Solothurn ma un po’ gli faceva paura e allora scappava subito nel bosco dovunque si trovasse. Il barocco è come una donna bella che si veste e si arriccia i capelli con cura maniacale, troppo consapevole di una bellezza che invece, proprio perché consapevole appare già sfiorita. Gli piaceva la gente di Solothurn e in fondo erano proprio le loro facce a mancargli. Lì non lo guardavano mai troppo ma erano gentili. “Buongiorno Robert”, “le porto una tazza di caffè?”, “è comoda la sua stanza?”. Sì, proprio quell’oste con i baffi neri che l’aveva inseguito portandogli il portafogli che aveva dimenticato chissà dove. “Stia attento Robert! Prima o poi qualcuno glielo ruberà!” e poi se ne era tornato indietro verso le ultime case di Solothurn, dove alloggiava in una stupenda casa di pietra di due piani, con due portoni e ben dieci finestre che adesso ricordava precisamente in ogni dettaglio. Le finestre a nord davano verso i boschi, quelle a sud verso la strada che portava al mercato. Gli uomini hanno inventato le finestre per incorniciare il mondo in frammenti riconoscibili. Forse ognuno di quei frammenti era convinto di rappresentare il tutto e bastava a se stesso. Ci sono uomini che guardano le montagne e uomini che ci si arrampicano. Uomini di casa e uomini di strada. Chissà cosa si prova a avere una casa, e chissà cosa si prova a avere una moglie, e magari addirittura dei figli che ci corrono dentro.
La sua donna era un nome, Frieda, e al suo nome e alla sua scrittura era sempre stato fedele. La donna è una lettera, è la sua calligrafia ordinata e rotonda che diceva tutto di lei. “Le prometto, gentile Signor Robert che non mi stancherò troppo, anche se l’ago non è un peso e cucire mi piace.” E lui in ogni lettera le raccomandava: “Non pretenda troppo dalle Sue care, piccole dita e Le consiglio di averne cura…”. Non rileggeva mai le sue lettere ma apriva volentieri e spesso la borsa di cuoio consunto che le conservava e le guardava come se guardasse il suo viso in infiniti ritratti. La scrittura di Frieda era un ritratto mutevole così come dovrebbe essere un ritratto. Frieda era sempre uguale e sempre diversa. Oh sì, senza alcun dubbio, era lei la donna della sua vita se proprio deve essercene una. Avesse avuto qualcosa da offrirle, forse la sua vita sarebbe stata diversa. Forse, chissà… Quando era giovane si sentiva così provvisorio che mai avrebbe potuto prendersi l’impegno di mettere su famiglia. Non era un Gottfried Keller lui, ma un semplice Robert.
L’infermiere Hans gli aveva ricordato sin dal primo mattino che era giorno di visite: il Tizio di Vienna del quale non riusciva mai a ricordare il nome. Robert odiava chiedere l’ora ma doveva essere già tarda mattinata e dunque la visita incombeva. “Maestro!” lo chiamava, e già questo era abbastanza ridicolo. Lo sapeva che al Tizio bruciava una domanda sulle labbra ma non riusciva a fargliela: “È vero che sente le voci?” Sì che le sentiva le voci, e questo non era segno di pazzia ma soltanto di acutezza d’ascolto. Gli altri non sentivano le mille voci che si azzuffavano dentro il loro stesso petto, lui invece sentiva. C’era anche chi poteva passare senza voltarsi davanti a una madonna del Tiziano, o accanto al monte Bianco.
A volte i dottori, reputandolo secondo lui ingiustamente, più intelligente degli altri ospiti dell’ospedale, gli chiedevano indicando questo o quella: “ma perché fa così? Perché si tolgono all’improvviso gli abiti come Achim o come Annerose?” Poi aspettavano seri le sue risposte, come se lo considerassero un oracolo. “Perché recitano” gli rispondeva sempre.
Ma i medici non lo capivano. Non conoscevano il vero significato della parola “recitare”. In fondo pensavano a un significato diverso: recitare male. Non sapevano che chi recita bene non recita più. Si è grandi attori quando si smette di recitare, solo allora si recita davvero. In una delle sue numerose piccole vite fallimentari era stato anche attore, forse. O almeno aveva immaginato di esserlo. Si era piegato a ogni curva del suo destino, come seguendo un sentiero nel bosco. A nulla aveva opposto resistenza ma in fondo era riuscito a restare intatto dentro di sé. Un vagabondo dalla scrittura minuta, quasi invisibile.
Quante cose aveva imparato! Ma neppure la sapienza resta. Non ricordava nessuno dei libri che aveva letto e ancor meno ricordava quelli che aveva scritto. La sua recita consisteva in questo: nel non voler più sapere. E infatti niente sapeva. Dov’era adesso? Come si chiamava quella grande villa bianca che lo ospitava da anni? Avrebbe voluto chiedere a qualcuno: ma chi ci governa, adesso? Come si chiama? C’è un nuovo imperatore lassù nel castello? I nomi se ne vanno per primi perché non hanno alcun significato per chi guarda intensamente. I passeri e i pettirossi erano agitati, quel giorno, e infatti il cielo odorava di neve. Non riusciva a capire cosa riuscissero a becchettare quelle minuscole creature alate tra i rami morti dei cespugli, che avevano ancora alcune foglie verdi ma di un verde smorto, di una bellezza raggelata. I pettirossi avevano un modo curioso di muoversi, a scatti armoniosi. Li trovava creature angeliche, di una bellezza quasi insostenibile, così solitari eppure perfetti, orgogliosi nel loro splendido piumaggio rosso e grigio, in realtà né rosso né grigio, ma di mille sfumature di entrambi i colori. È così la realtà, infiniti frammenti di frammenti.
“Guardi gli uccellini oggi?” gli chiese l’infermiere Hans.
“Sì” gli rispose, “ma gli uomini sono tutti cattivi… anche tu povero Hans…”
“Nevicherà?” rispose quello che non badava mai ai suoi discorsi.
“Non vedi?”
Voleva dirgli “non vedi che è già tutto neve?”, ma l’infermiere non vedeva niente. Sembrava contento e puliva meticolosamente il corridoio.
“Magari spunta di nuovo il sole, invece, così te ne vai a passeggiare con il signore di Vienna…”
I soliti illusi che sperano in un miglioramento! Sono davvero pazzi pericolosi, pensò Robert, ben consapevole di trovarsi in un ospedale per alienati mentali da decenni. Da quando esattamente non lo ricordava. Neanche l’anno in cui era morto il suo amato fratello avrebbe saputo dirlo. E per un attimo sorrise e si compiacque con se stesso: in che anno si trovavano? Che numero avevano festeggiato gli umani a capodanno? E dov’era lui a capodanno? In ospedale, certamente. E certamente nevicava. Proprio come oggi. La neve si annuncia con il profumo. Ti svegli al mattino e sai che nevicherà perché l’aria profuma di neve anche se non nevica ancora. Sarà il vento che ne porta l’odore dalle montagne. Gli bastò pensare la parola “montagne” che già aveva cambiato finestra e le guardava, bianche e immobili, forti, taglienti. La bellezza non ha bisogno degli uomini che la guardano, così come l’amore non ha bisogno degli uomini che lo sporcano. Ma provava amore, per quelle montagne, per il pettirosso e per le nubi bianche sempre più compatte. Il vento si stava calmando. E all’improvviso, come se il mondo stesso tirasse un sospiro di sollievo cominciò a nevicare.
“Toh nevica” commentò l’infermiere Hans “sei proprio un mago!”.
Robert non gli rispose. Pensò subito: “Forse l’automobile dell’adulatore sarà stata bloccata dalla neve… forse in questo momento sarà tutto intirizzito accanto al fuoco di una oscura osteria di strada. Ma le persone ostinate non si fermano davanti a una nevicata, e avvertì di nuovo acutamente il disagio della visita. “Maestro!” E lui che sarebbe stato per ore a guardare la neve. Avrebbe assaporato il dolce momento del tramonto: la debole fiammella di una candela che si spegne ormai senza più niente da consumare. Il bianco sarebbe diventato grigio e poi nero, e forse sarebbero tornate a brillare le stelle sulla distesa gelata.
Il mondo lo stava chiamando, ne sentiva forte la voce dentro di sé. “Vieni da me amico caro” gli diceva, “tu appartieni a me…”. La stessa voce la sentivano certamente tutti i randagi del mondo, uomini e cani, rettili e uccelli.
Pensò a Frieda, “la piccola dolce Frieda” alle sue minute mani dolcissime che giocavano con l’ago. Avrebbe voluto inondarla di parole, piccole piccole, così era la sua scrittura, minuta come piccoli fiocchi di neve. Frieda, la sua scrittura, erano tutt’uno, parte del suo confuso passato. Il passato era per lui molto più incerto del futuro e gli faceva paura. Ancora era lì a chiedersi cosa gli era successo. Mentre non si chiedeva mai: che sarà di me?
Tutto quel che gli restava del passato erano vecchie pagine fitte di parole che ci voleva una grossa lente per leggerle e anche così non si capiva quasi niente. Cioè gli altri non capivano, mentre lui si vedeva e si rispecchiava ancora nella sua vecchia scrittura ormai appassita.
Il silenzio gli sembrava la sua opera più importante. Il suo non voler più fare. Ai suoi occhi una risposta di una violenza inaudita. Non lo capiva il Tizio che veniva addirittura da Vienna portandogli i suoi vecchi libri ristampati? Sì, ne aveva accettati alcuni, ma solo per regalarli al primario. Si ottiene un trattamento migliore se insinui il sospetto che sei un uomo di qualche importanza. Robert non era affatto timido, era anzi violento, come può esserlo una persona gentile fino al midollo. Erano lontani i tempi in cui si lasciava cadere lungo un fossato e piangeva, pieno di dolcezza per il mondo e di angoscia per sé e per il destino spietato dei suoi cari. Da anni non piangeva più, anche se per la verità il suo sorriso accogliente e buono appariva di rado e in una versione malinconica del tutto inconsapevole. Con quell’improvviso sorriso sotto i baffi andò dritto verso la porta del reparto e l’aprì, sgusciando fuori senza esitare. Tenendosi stretti i baveri della giacca camminava in fretta per darsi l’aria di uno che sta facendo qualcosa di sgradito ma di socialmente utile. Qualcuno lo notò dalle numerose finestre ma vedendolo andare così di fretta pensò di sfuggita: “Dev’essere finita la legna… è Robert che sta andando in legnaia…”. Si allontanò dall’edificio seguendo un viottolo che gli era ben noto, delineato da mattoni ormai invisibili come il viottolo e come tutto il resto, alberi e pietre. In pochi istanti la neve aveva già coperto la superficie di tutte le cose e c’era un silenzio festoso che si estendeva all’infinito. Le sue scarpe lasciavano impronte sottili pronte a svanire nel nulla, rendendolo così invisibile a ogni pedinamento. Forse a causa della neve c’era una strana elettricità nell’aria e la sentiva nelle gambe e nei pensieri, che correvano veloci come le sua gambe, senza stancarsi, anzi rinvigorendo a ogni passo, come un corridore quando rompe il respiro e scopre di quanta forza è ancora capace.
Come avrebbe potuto spiegarlo al tizio di Vienna: questi sono i miei racconti. Disegni fatti nell’aria con la punta dell’indice, frammenti di frammenti, pulviscolo di parole.
“Dove stiamo andando?” chiese la voce, “sulle montagne forse? Lassù sarà bellissimo…”
“Andiamo alla fine del mondo.”
“Ma dov’è la fine del mondo?”
“È vicina… più di quanto crediamo… ecco, è qui…” e Robert indicò a nessuno, perché nessuno lo vedeva, il luogo che lo circondava, ormai un non-luogo perché immerso nel bianco e mutevole nulla. “Era qui… e pensare che ho camminato tanti anni, senza mai fermarmi, non mi rendevo conto che la fine è accanto al principio… ci sarò passato davanti senza vederla migliaia di volte… è qui, è proprio qui…”
Restando fermo per guardarsi attorno, anche se guardarsi attorno non aveva alcun senso, percepì il rumore della neve che si posava su se stessa. Un suono quasi impercettibile, causato dall’infinita quantità dei fiocchi che scendevano e dalle loro ampie e sinuose dimensioni. Il rumore di un fiocco non lo puoi neanche immaginare ma quello di un milione di fiocchi sì. È una sorta di respiro. Gli sembrò un momento talmente perfetto che si dispiacque di non condividerlo con il petulante visitatore di Vienna, di certo in febbrile attesa nel salotto della clinica. Cosa si perdeva!
Quello che si aspetta non arriva mai… quello che cerchi non lo troverai. Ecco il grande segreto.
La scrittura, caro il mio viennese, non è che altro che fogli di carta che svolazzano come fiocchi di neve.
La neve continuava a cadere nel suo respiro armonioso e con lei si espandeva la perfezione. Ogni cosa veniva coperta, anche Robert, anche il suo cappello ormai più alto di una spanna, anche il suo cappotto un po’ corto, anche le sue scarpe nere. “Stai giù” gli disse la neve, “stai giù come tutte le cose…” e lui si sdraiò e si sentì completamente felice.
Claudio Piersanti