Il mio primo incontro con Claudio Pozzani è stato a Genova a Palazzo Ducale nell’estate del 1999. Da lì, pur percorrendo strade diverse, ci siamo sempre incrociati. Claudio, riceverà dall’Accademia Mondiale della Poesia il Premio Catullo a Verona il prossimo 31 Ottobre.
Oliviero Malaspina
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Hai voglia di parlarmi un po’ di te?
Sono una persona serena con se stessa, un outsider, lo sono sempre stato. Le convenzioni sociali mi sono estranee. Mi sono sempre trovato a parlare di argomenti che non interessavano i miei coetanei: cultura, poesia, viaggi. Non mi sono mai voluto identificare con un gruppo, d’altronde anche come poeta non riescono a collocarmi in una corrente o gruppo: per alcuni sono troppo performatico, per altri troppo lineare. Come dicono i francesi, sono sempre stato un éléctron libre.
Se poi ci aggiungi che mi piace viaggiare e preferisco la dimensione dal vivo alla pubblicazione, capirai perché i miei reading sono per il 90% all’estero. In Italia la logica degli orticelli poetici è molto forte. Io me ne sono sempre fregato e anche come organizzatore ho sempre invitato autori di ogni tipo, tenendo come criterio la qualità.
Vivo solo della mia poesia, non svolgo altre professioni, io e la mia poesia siamo un tutt’uno.
Non ti ritieni quindi un poeta da studio né da officina?
La maggior parte delle poesie la compongo mentre cammino, perché i passi mi danno il ritmo. Quando recito le mie poesie in pubblico, le scrivo per la seconda volta. Dopo il lavoro di “scultura” e cesello che è la scrittura, la voce dà la vibrazione verso l’esterno. È come se ogni volta costruissi uno strumento musicale e poi lo suonassi.
Da bambino mi colpì moltissimo la recitazione dell’Odissea fatta in TV da Ungaretti. Era come se facesse vivere la poesia attraverso la voce. Da quel momento ho sempre pensato che scrivere poesie è importante, ma bisogna anche saper dar loro la voce di cui hanno bisogno. Quando ho iniziato, più tardi, a scrivere seriamente, mi è rimasto questo interesse per la recitazione e l’attenzione al contatto col pubblico.
La mia prima opera pubblicata in Italia è stato il CD La marcia dell’ombra, che è stato anche nelle classifiche di preferenza delle radio italiane per molte settimane, prima volta per un album di poesie.
In alcune poesie utilizzo anche il corpo e la voce come strumenti percussivi, questo mi dà la possibilità di far entrare tutto me stesso anche fisicamente nella composizione di un testo.
Alle manifestazioni alle quali mi hai invitato io ero sempre in doppia veste di poeta e cantautore e anche gli altri ospiti, tutti di spessore altissimo, erano mescolati tra musica e poesia. Cosa ti lega alla musica?
Ho cominciato come poeta, poi come cantante rock. Grande amore, oltre alla poesia, è stato per me, molto presto, la musica, nato col primo disco dei Pink Floyd ascoltato a dodici anni The dark side of the moon. Queste due dimensioni, musicale e poetica, hanno convissuto sempre in parallelo nella mia vita. La musica e il movimento entrano nella mia produzione poetica sia in fase di creazione che di riproposizione dal vivo. Nel primo caso molto spesso le mie poesie nascono su ritmi portati dal movimento come i passi o i battiti del cuore o i cambi della respirazione come nei testi più lunghi. Nei reading, mi viene naturale di dare un corpo alle poesie e di andare molto verso il pubblico e di sentire le sue reazioni e vibrazioni. In questo mi è rimasto molto lo spirito di “front man rock”.
Ora mi dedico più alla scrittura di canzoni per altre voci, ma come ascoltatore ho sempre spaziato in tutti gli stili musicali, dalla classica al rock, all’elettronica al folk.
Credo che la poesia debba contenere la musica in sé. La prova è che raramente canzoni costruite su testi poetici sono diventate una cosa accettabile.
Mi trovi perfettamente d’accordo. Quali sono i tuoi riferimenti poetici?
Montalianamente vorrei iniziare con quello che non sento vicino: soprattutto chi fa una poesia di maniera, scrivendo in “poetese” come diceva Sanguineti. Sento molto vicino chi con la poesia riesce a coinvolgere tutti i cinque sensi, che riesce a dare corpo a ciò che scrive. Per me la poesia non è solo cervello, ma anche muscoli, ossa, nervi, sudore. Trovo molti poeti decisamente noiosi e, passatemi la parola, molli, senza spunti sorprendenti, senza immagini magiche, orientati solo verso esercizi di scrittura. Per fortuna ho incontrato tanti autori che invece avevano questo “fuoco sacro” e con loro mi sono subito sentito in sintonia. I miei poeti di riferimento sono così numerosi e disparati da non permettermi di indicare una preferenza di forma rispetto ad un’altra. Tuttavia penso a Baudelaire, D’Annunzio, Leopardi, Whitman, Marinetti, Sbarbaro, Ungaretti come alcuni dei miei poeti preferiti. Le mie radici “orali” affondano quindi nel Futurismo, nella Beat Generation, nella poesia indigena sudamericana, nel rock. E poi la mia poesia è ispirata anche dal cinema, dalla musica, dalle arti visive.
È importante per un poeta ascoltare altri poeti, musicisti, artisti, avere un orizzonte ampio e vario. Purtroppo i poeti sono tra quelli che si chiudono di più. Io non mi considero un performer perché il performer fa dell’azione la priorità: io voglio invece dare a un testo già scritto una dimensione orale. La cosa più importante resta il testo. Molto spesso i testi esclusivamente sonori (privi di contenuto) possono essere interessanti ma non sono poesia. La poesia è anche soluzione verbale, significato e suono. Nel momento in cui si decide di leggere in pubblico è sicuramente importante curare l’oralità del testo, perché è necessario, nei pochi minuti a disposizione che si hanno nelle letture, far passare chi si è. A me piace il poeta che assomiglia alla propria poesia: quando ciò non capita sento odore di artefatto.
La poesia è sempre stata trasmessa per via orale: nei festival ad esempio ci sono tanti spettatori ma si vendono pochissimi libri. La dimensione vera della poesia è proprio quella orale: il poeta che però si forma solo sull’aspetto sonoro non è un gran poeta.
D’altronde penso che se uno si produce in un evento live deve dare qualcosa al pubblico che è venuto ad ascoltarlo. Molti poeti si considerano più intellettuali che artisti.
Parliamo ora del tuo “management poetico e culturale”.
Fin dall’inizio, come autore e come creatore di eventi culturali, ho perseguito lo scopo di aprire spazi, idee, situazioni.
Ho creato il Festival Internazionale di Poesia di Genova proprio per conquistare uno spazio per la divulgazione della poesia contemporanea e per gli scambi culturali tra i Paesi di tutto il mondo attraverso questa forma d’arte. Ho lanciato questo Festival quando nessuno in Italia parlava di poesia, tantomeno i media e i giornali, né c’erano altre manifestazioni di questo livello. In un Paese come l’Italia, agli ultimi posti come letture di libri, con un sistema scolastico con molti problemi e con un alto tasso di analfabetismo di ritorno, creare un festival di poesia e soprattutto mantenerlo al top per venti anni è una grande scommessa e un grande sforzo.
Rispetto ad altri Festivali di Poesia, che sono più settoriali e invitano solo un certo tipo di autori, quello di Genova ha sempre avuto un’apertura a 360°, con l’unico criterio della qualità. Qui vengono poeti sonori e lineari, performer e poeti classici. Non vogliamo mettere barriere pregiudiziali. Mi piacciono i contrasti, quando sono forieri di una visione allargata e non omologata della creatività poetica.
Il Festival è diventato un luogo di incontro e di produzione di nuovi progetti per molti autori, non soltanto italiani. Il CVT, l’associazione che lo organizza e di cui sono fondatore, è una sorta di casa di produzione di eventi e prodotti culturali, in Italia e all’estero.
Non dimentichiamo che quello di Genova è il festival internazionale di poesia più grande e più antico in Italia, con 26 edizioni organizzate e oltre 1700 partecipanti provenienti da 89 Paesi mondiali.
Tuttavia a Genova c’è anche un doppiosenso a cui ho pensato quando ho scelto questo nome: qui per palanche si intendono i soldi e quindi “spalancato” vuol dire senza denaro. E’ un’ironia verso i continui tagli ai quali siamo sottoposti (in buona e nutrita compagnia) e al fatto che l’Italia è l’unico Paese in Europa che non prevede fondi ministeriali per poesia e letteratura.
Quando abbiamo iniziato nel 1995 non c’erano mail, internet né cellulari per cui mettere insieme un programma internazionale richiedeva dieci volte più fatica e tempo. L’organizzazione prende comunque un anno di tempo, in pratica quando si chiude un’edizione iniziamo a pensare alla seguente. In un paese come l’Italia, che dà poca importanza alla cultura e alla letteratura e poesia in particolare dobbiamo fare miracoli con budget 5 volte inferiori a quelli dei festival all’estero, riuscendo tra l’altro a conservare un alto livello qualitativo e un grande afflusso di pubblico, due elementi che continuano a fare di questa manifestazione il più importante festival di poesia in Italia. Per fare un parallelo calcistico, è come se una squadra con il budget da serie B vincesse lo scudetto consecutivamente da 25 anni, e qualche volte pure la Champions Cup.
Un festival di poesia non deve essere una mera vetrina di poeti, ma una vera e propria fucina di collaborazioni, (ri)scoperte, sperimentazioni. Bisogna anticipare le tendenze, andare a scovare i poeti interessanti in giro per il mondo, produrre nuove collaborazioni e commistioni, pensare a nuovi eventi per ricordare e valorizzare autori dimenticati o marginalizzati. Per questo, mentre partecipo come poeta ai vari Festival all’estero, faccio anche scouting di autori non ancora tradotti e pubblicati in Italia. Inoltre, con altri 13 Festival europei abbiamo fondato la piattaforma Versopolis, proprio per far pubblicare e circuitare poeti emergenti. Abbiamo poi lanciato il progetto La parola alla poesia proprio per far conoscere agli studenti la poesia contemporanea, praticamente inesistente nei programmi didattici.
Siamo in un’epoca nella quale si arriva a giudicare la qualità dalla quantità: gli eventi culturali dai like e dal numero di spettatori o da quanto sia in alto nelle ricerche di Google. Si applica negli eventi lo stesso criterio dell’Auditel. Invece, bisogna coniugare ricerca e qualità artistica a pubblico sempre più vasto, senza banalizzare o facendo compromessi al ribasso.
La poesia è una grande forma di spettacolo di per sé, ma molti organizzatori di eventi credono che debba essere supportata da qualche elemento più “digeribile” come sottofondi musicali, competizioni, riduzioni teatrali, perché, in fondo, neanche loro credono alla forza della poesia. Se un poeta è bravo e la poesia è buona, non c’è bisogno di nient’altro della voce e del testo per entusiasmare e coinvolgere il pubblico. Purtroppo troppi impiegano male la parola “poesia”. Non si capisce perché ad esempio l’aggettivo “poetico” sia utilizzato in tutte le arti tranne che in poesia: un film poetico, un paesaggio poetico, un disco poetico eccetra.
Parole spalancate ha come scopo quello di dimostrare che la poesia funziona benissimo da sola. Il fatto poi che presentiamo molte occasioni d’incontro con altre arti è un qualcosa in più e che non c’entra col fatto che è la poesia pura e nuda il cuore del nostro progetto. Non si è mai visto che per far apprezzare meglio un quadro o una scultura si debba ricorrere a una colonna sonora o per apprezzare meglio un quartetto d’archi si metta per forza un balletto. Se nascono degli incroci è perché ci sono progetti definiti, voglia di condivisioni fra artisti differenti, sperimentazioni, ma non “soccorsi” alla poesia per renderla più fruibile. D’altronde la poesia è la forma d’arte che “deve” essere sinestetica, che tocca e coinvolge tutti i sensi senza strumenti, senza movimenti, solo con la parola.
Uno studio ha dimostrato che la maggior parte degli italiani si esprime usando 500 vocaboli, pur avendo una delle lingue più ricche. Io sostengo che questa povertà si riverbera nella vita: chi parla male, pensa male e vive male. La violenza, d’altronde, inizia quando non si hanno più altri metodi di comunicazione e dialogo. La povertà di linguaggio accelera i processi di violenza, basti vedere i casi di omicidio tra coniugi. E in tutto questo, qual è il ruolo del poeta? Non certo quello di scambiarsi recensioni favorevoli attraverso i giornali e le riviste. Il poeta è rabdomante, intercetta nuove tendenze del linguaggio, esplora mondi paralleli, è la sentinella che avverte del pericolo della siccità mentale. Sostengo che la poesia dovrebbe essere un’ecologia della parola, che contribuisce a ridare forza e significato alla parola, ormai vilipesa da giornalismo in cerca di sensazionalismo, politica disperata, letteratura kleenex.
Soltanto se ognuno prenderà il tempo per guardarsi allo specchio e ascoltare le proprie voci, gettando via il “viver come bruti” per riconciliarsi con la sua vera natura di ricerca delle cose belle, del piacere, della conoscenza, allora l’intera nazione, continente e mondo migliorerà. Ma è una lotta giorno per giorno, senza tentennamenti e compromessi, sfidando arroganze, invidie e ignoranze che trascinano giù chi tenta di applicare questi valori e principi.
Per molti poesia è un pensiero più o meno sensibile scritto andando a capo. Ma io faccio sempre un esempio: se uno canta sotto la doccia, senza dubbio sta cantando ma non è un cantante. Ne prova giovamento, felicità, sfogo, ma non è un cantante. Massimo rispetto per coloro che gettano su carta pensieri e sentimenti come autoterapia e tentativo di condividere emozioni, ma la poesia presuppone studio, originalità, talento, conoscenza, esperienza, come tutte le arti.
Come vive la poesia l’Italia e come la vive l’Europa.
Ho notato inoltre che all’estero, alla fine dei miei reading il pubblico viene a farmi domande e commenti su ciò che ha appena ascoltato, mentre in Italia la maggior parte delle persone che mi vengono a parlare mi danno loro poesie e mi chiedono se posso scrivere una prefazione alla loro raccolta. Questo aspetto ribadisce l’atroce realtà poetica in Italia, dove tutti o quasi scrivono poesie e quasi nessuno ne legge. Un paradigma della società contemporanea, dove tutti vogliono esprimersi anche su cose che non conoscono e non sono interessati ad ascoltare gli altri: questo provoca una sorta di arrogante ignoranza che devasta ogni comparto della vita sociale, culturale ed economica. Io trovo un diretto legame tra la crisi economica e il fatto che si legga poco e non si ascolti: tutte le crisi economiche sono partite da deficit culturali ed etici. Promuoverei molti più workshop e laboratori di lettura creativa e molti meno di scrittura creativa, anche perché molti di questi ultimi sono trappole per ingenui. Poi se ci fate caso, quante volte si impiega l’aggettivo “poetico” magnificando opere di altre arti? Non è un controsenso, visto che la poesia è marginalizzata, irrisa e calpestata ogni giorno a scuola, nei media e nelle case?
La passione è uno degli elementi fondanti dell’evoluzione umana e, più personalmente, è la colonna vertebrale della mia vita. Trovo che la passione, soprattutto negli ultimi 30 anni, sia considerata come una cosa quasi superflua e ingenua. Questa è la cosa più pericolosa che ci deve far pensare. Soprattutto i giovani devono voler cambiare il mondo, non solo l’IPhone. Io non vedo passione, creatività, coraggio, rabbia: vedo solo tanta rassegnazione e apatia. Anche se per fortuna ci sono eccezioni.
Parole spalancate vuole ribadire la centralità della passione, della conoscenza, della condivisione dei saperi, della bellezza, della curiosità intellettuale, della creatività nella vita umana, in un’epoca nella quale dare del “sognatore” a qualcuno è diventato quasi un insulto: sei uno scansafatiche, uno che non è pratico, che non pensa alle cose materiali che sono le uniche importanti. I sogni sono le cose più concrete che esistano perché sono alla base dell’evoluzione umana e del suo sviluppo e progresso. E non è un caso se anche la poesia, così vituperata e reputata inutile, derivi dal verbo “fare”…
Posso constatare che nell’epoca della comunicazione su fibra le idee forti viaggiano alla stessa velocità di quando Petrarca faceva il giro d’Europa a piedi. Gli artisti contemporanei si influenzavano a vicenda anche allora, quasi in tempo reale. Ora c’è l’egemonia dell’orizzontalità rispetto alla verticalità: superficialità estesa a tutti dove prima c’era profondità destinata a pochi. Torniamo al discorso di prima: 50 anni fa c’era un tasso di analfabetismo molto più alto di ora, però alla TV passavano programmi di un livello culturale impensabile oggi e si leggeva di più. Chi apparteneva a un ceto sociale più abbiente era più acculturato, ora non è così. Fra i professionisti e ceto medio alto non c’è un grande livello di apprezzamento delle cose belle, della cultura, delle arti.
Viviamo poi in un’epoca dove la censura è stata sostituita in peggio dal “politicamente corretto”: i film di Pasolini oggi non uscirebbero neanche. E se ci fate caso, metà dei film italiani degli anni ’50 o ’60 sarebbero massacrati di critiche.
Un’annotazione sul libro cartaceo e digitale: sono nato analogico e quindi non faccio testo, rispetto a chi è nato davanti a uno schermo, ma scommetto tutto quello che ho che il libro cartaceo sopravviverà anche a questa epoca. Abbiamo libri scritti secoli fa, mentre non trovo più la possibilità di vedere una cosa che ho filmato o una che ho scritto venti anni fa, perché non ho più apparecchi compatibili. Basterà una tempesta magnetica a cancellare una storia di civiltà?
Come vedi la poesia in rapporto con le altre arti?
Parlando delle corrispondenze tra poesia e altre arti nel Festival si tratta di veri e propri incroci e rapporti dialettici: la poesia è centrale ed è declinata in tutte le sue forme e in rapporto con le altre arti mediante progetti specifici. Non parlerei di contaminazione perché nessuna delle arti in dialogo perde o cambia la sua identità ma l’incrocio dà vita a qualcosa d’altro. Poi ci sono espressioni che uniscono già in sé elementi come poesia sonora, canzone d’autore, cinema d’animazione, teatro di parola, installazioni e performance artistiche. Penso tuttavia di raggiungere il mio scopo quando vedo un poeta solo in scena che ipnotizza il pubblico. Quello è il mio traguardo.
Desidero che Parole spalancate sia un Festival nel quale si rifletta e si ragioni anche su quello che ci circonda e che spesso ci sorpassa, insomma sullo spirito del tempo e su possibili scenari futuri sempre però da un punto di vista più poetico. Ecco perché in questi anni abbiamo portato filosofi, scienziati, stilisti, astrofisici, architetti, ricercatori e altri ancora a parlare di onde gravitazionali, grafene, computer quantistici, nanotecnologie, silenzio. La poesia non è un mondo staccato dal suo tempo, ma se ne nutre e lo reinventa. Molto spesso ci si trova d’accordo sul fatto che il poeta e lo scienziato siano molto simili come approccio: spesso si parte da un’intuizione per poi iniziare un duro lavoro di ricerca e di esplorazione.
Se si pensa all’ultima tendenza di espressione verbale, il rap, bisogna soprattutto sottolineare che ha riportato in auge due elementi che la poetica del XX secolo aveva marginalizzato se non addirittura abolito come la metrica e la rima. Come dire: l’ultima tendenza ritorna al passato.
Tu sei un giramondo, organizzi ovunque, ma il tuo rapporto con Genova?
Genova è una città segreta che si apre secondo i suoi tempi e metodi. E’ un gatto che ti annusa prima di farsi accarezzare. Non penso sia un caso che Genova abbia ospitato i più grandi cantautori e poeti italiani: è un mix di spazi aperti e angusti e lo stesso mare è a un tempo un limite e un’apertura verso l’infinito. L’unione di questi estremi fanno di Genova una città-ossimoro, humus ideale per la poesia e gli slanci ideali. Parole spalancate è entrato del DNA della città, anche se tra le mille difficoltà e luoghi comuni che si porta dietro la poesia a causa di programmi scolastici polverosi e mediocri, di ignoranza e indifferenza dei media. Da 25 anni Genova è tornata centrale nella poesia grazie a questo Festival che è dalla sua creazione anche un’ottimo veicolo promozionale della città all’estero, visti i continui viaggi, letture ed eventi che effettuiamo in Europa e oltre oceano.
Inoltre, essendo genovese ho già la sonorità portoghese-brasiliana nella mia cadenza e poi Genova è la città italiana che incarna meglio l’idea di saudade, visto che quando si è qui molto spesso bisogna andarsene per poter fare qualcosa e quando poi si è lontani si soffre pensando ai colori, gusti e odori di questa città misteriosa e magica. Nella mia poesia c’è molto questa componente di nostalgia e noia esistenziale in contrasto tra loro: saudade & spleen, molto genovese.
La poesia e la scuola. Due binari paralleli?
La scuola italiana, nei suoi programmi ministeriali e in buona parte degli insegnanti non ama la poesia.
E’ un paradosso terribile: molto spesso si scopre la bellezza della poesia finita la scuola ma è altrettanto vero che se abbiamo una passione per essa è perché un docente ce l’ha trasmessa. Il problema è che solo una minoranza degli insegnanti di letteratura ama la poesia e se non hai tu per primo una passione non puoi trasmetterla.
Quando vado nelle scuole medie inferiori e superiori a fare degli incontri, devo per prima cosa superare la diffidenza verso la poesia che hanno gli studenti. È una soddisfazione doppia vederli entusiasti alla fine della lezione, pieni di domande e idee, mentre il loro approccio iniziale rifletteva il pensiero ricorrente: “oh no… che noia la poesia!”.
In generale la scuola insegna a odiarla, poiché la maggior parte degli insegnanti di letteratura non amano la poesia, la insegnano male e insegnano a detestarla. È fondamentale agire sulle nuove generazioni, a scuola e non. L’altra colpa è quella dei poeti noiosi che fanno capire perché la gente odia la poesia: sarebbe opportuno cercare codici comuni alle nuove generazioni, per continuare il dialogo.
Nei Festival ai quali sono invitato cerco sempre di avere incontri con studenti, perché ho una missione o una sfida da portare avanti, quella di mostrare che la poesia è uno spettacolo, sa emozionare, eccitare. Purtroppo la scuola molto spesso instilla negli studenti l’equazione poesia=noia. Certo che per trasmettere una passione bisogna averla: troppo spesso i docenti non amano e non frequentano la poesia e quindi come fanno a far innamorare di essa i propri studenti?
La situazione della poesia e dei festival in Sud America rappresenta un mondo a parte, con una profonda forza, tale che i poeti rappresentano uno status sconosciuto in Italia. Il poeta viene effettivamente riconosciuto come artista. In Italia invece l’equazione poeta uguale artista non esiste, e neanche i poeti si reputano artisti. In Europa era particolarmente interessante il panorama orientale, anche se attualmente il poeta ha perso la sua funzione sociale che aveva e la parte araba invece vede tuttora nella poesia un ruolo ancora prestigioso.
Partecipando da 25 anni ai vari festival mondiali, ho notato che molto spesso i poeti italiani non sono i migliori a leggere in pubblico e questo perché spesso la loro è una poesia che viene da intellettuali e non da artisti. Non c’è niente di più distante tra un intellettuale e un artista, anche se spesso questo viene viene confuso. Pensiamo già solo che a un poeta spesso viene chiesto di parlare non in merito alle sue poesie ma a molti argomenti, finendo per parlare di tutto, mentre a un pittore, a un musicista, questo non capita. Il poeta in quest’ottica diventa un “tuttologo”. Inoltre essere italiani e parlare l’italiano, che è considerata la lingua più bella del mondo, sono due fattori che creano notevole interesse per i poeti italiani, sebbene questi non siano ancora sufficienti a far impegnare i poeti a valorizzare una parte orale, che è invece importante. La lettura del testo equivale a scrivere la poesia una seconda volta.
Oliviero Malaspina: cosa consiglieresti ad un giovane poeta?
Consiglio di leggere, partire da un autore, un’opera, un testo che lo appassioni e creare la propria dimensione, il proprio percorso di lettura. È solo leggendo e trovando l’ispirazione, che a sua volta parte leggendo le poesie degli altri e anche la narrativa, che si può scrivere buona poesia. Da una lettura di poesia può nascere tutta un’altra poesia. Essere poeta vuol dire essere spugna, in quanto si assorbe tutto ciò che c’è attorno, e al contempo essere seppia, perché si butta fuori tutto scrivendo. Non viceversa. Dai 16 ai 25 anni, ad esempio, ho letto tantissimo e da allora non ho mai smesso: è quella un’età catartica in cui si formano le proprie idee. A ciò si deve unire la voglia, grintosa, di cambiare il mondo: se non c’è da ragazzi non ci potrà essere dopo.
Grazie Claudio, avremmo bisogno di più artisti poeti e persone come te.
(Intervista a cura di Oliviero Malaspina)
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Claudio Pozzani è nato a Genova nel 1961. Poeta, romanziere e artista, partecipa ai più importanti festival letterari a livello internazionale.
Le sue poesie sono tradotte e pubblicate in oltre 10 lingue e sono comparse in importanti antologie e riviste di poesia contemporanea.
Pozzani ha creato nel 1995 e dirige tuttora il Festival Internazionale di Poesia di Genova Parole spalancate, considerato uno degli eventi poetici più importanti in Europa. Nel 2001 ha fondato sempre a Genova la Stanza della Poesia, che organizza ogni anno oltre 150 eventi gratuiti. Nel corso degli anni ha ideato e organizzato numerosi eventi di poesia internazionale in Francia, Finlandia, Belgio, Giappone, Austria e Germania. E’ co-fondatore della piattaforma Versopolis che raggruppa 14 festival di poesia europei.
Tra le sue opere più recenti: il libro-CD La marcia dell’ombra (CVTrecords), il saggio L’orlo del fastidio – Appunti per una rivoluzione tascabile e infettiva (Liberodiscrivere, 2017) e la raccolta antologica Spalancati spazi – Poesie 1995-2016 (Passigli, 2017). Nel 2019 il regista Fabio Giovinazzo ha realizzato il film L’anima nel ventre basato sulle sue poesie.
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FESTIVAL INTERNAZIONALE DI POESIA PAROLE SPALANCATE
Il Festival Internazionale di Poesia di Genova Parole spalancate, nato nel 1995 e giunto alla 26a edizione, è il più grande e longevo evento italiano dedicato alla poesia, con oltre 1400 poeti provenienti da 87 Paesi di tutto il mondo intervenuti nelle 24 passate edizioni, e oltre 100 eventi gratuiti ogni anno fra letture, concerti, performance, proiezioni, conferenze, mostre e visite guidate. Tra gli ospiti del Festival possiamo annoverare i premi Nobel Walcott, Milosz, Soyinka, Gao e Coetzee e artisti come Lou Reed, Ferlinghetti, Adonis, Albertazzi, Bergonzoni, Foà, Vecchioni, Luzi, Zavoli, Benni, Greenaway, Jodorowsky, Tony Harrison, Ben Jelloun, Darwish, Sanguineti, Caparezza, Maraini, Capossela, Alvaro Mutis, Montalban, Juan Gelman e molti altri. Il Festival ha dato vita a rassegne in Francia, Belgio, Finlandia, Giappone, Austria, Germania. Il Festival ha ricevuto importanti premi in Italia e all’estero, tra cui il Premio del Ministero dei Beni e Attività Culturali nel 2009, il Premio Catullo nel 2012 e il Genovino d’oro della Città di Genova nel 2014. Ha fondato la piattaforma europea Versopolis con altri Festival di poesia di 13 Paesi.