Scrivere la storia del club per cui soffri (che poi si soffre anche quando alla fine si gioisce, è risaputo) da quando sei nato è il sogno di qualsiasi tifoso e appassionato di futbol che abbia in dote un minimo di alfabetizzazione, cioè di pratica della sintassi e della lingua madre. Non bisogna dirlo a voce alta ai tipi di Hoepli, ma si tratta di uno di quei rari casi in cui chi scrive potrebbe anche farlo senza che gli venga corrisposto un soldo, un simbolico compenso: trattasi di un livello diverso, un territorio che si misura con le dinamiche del cuore, stabilire una tariffa sembra quasi un’offesa recata a se stessi. Scherzo, sia chiaro. Ma fino a un certo punto.
Da musicista e cantautore che ha pubblicato una decina di album, avessi potuto scegliere tra il diventare un Bob Dylan o un Gianni Rivera non avrei avuto dubbi, avrei scelto di essere il “Golden”, come lo chiamava Beppe Viola. E anche oggi, che alcuni mi chiamano Bob Milan, farei la stessa scelta. Ma se al posto di Dylan m’avessero proposto Jannacci la scelta sarebbe stata più ardua, però sempre per via del Milan. Agli altri tre autori non faccio nemmeno finta di chiedere, so che risponderebbero come me. In fondo è proprio questo il segreto di questo libro, che qualcuno ha definito una specie di “romanzo popolare”, e che attraversa 120 anni di storia di uno tra i più gloriosi club del mondo.
Un po’ di fatica e molta attenzione per essere all’altezza nella restituzione al lettore del dato storico, certo. Ma un godimento speciale per l’occasione imperdibile di raccontare un’epoca con un’intenzione prevalentemente sentimentale, mescolando gli ingredienti essenziali di una passione che è puramente sensoriale: i colori delle maglie, l’odore di San Siro nelle giornate perfette, col cielo livido nelle partite invernali o nelle giornate di tramontana a primavera, quando le gambe e i pensieri corrono veloci. La rampa, il verde del prato, l’attesa. Le scaramanzie, il bar, le adrenaline. Da bambini, per mano al papà, allo zio o al nonno. Da ragazzi e da adulti, da padri con il figlio per mano, a condividere un’emozione e una fede che spesso si trasmette per vie ereditarie. Una festa, e una sfida.
1899 AC MILAN – LE STORIE è fatto di 450 pagine senza fotografie; una scelta controcorrente, perché di solito questo genere di libri soffre di didascalite acuta, e raccontare con il sostegno delle foto è sempre più facile, più comodo. Le immagini però ci sono, e sono davvero preziose: le tavole di un fuoriclasse dell’illustrazione, Osvaldo Casanova, un nome d’altri tempi, un artista che non ha avuto bisogno di scegliersi un nome d’arte.
Quattro fanti vestiti di rossonero: Michele Ansani, Gino Cervi, Gianni Sacco e il sottoscritto, per dare voce a questi 120 anni di gioie e dolori con il nostro modo di “sentire” la fede rossonera. Si apre con l’introduzione di un grande poeta contemporaneo, Milo De Angelis, e si chiude con un’intervista a Zorro Boban. In mezzo ci sono le storie grandi, le storie piccole, i fuoriclasse, gli allenatori, i presidenti, i campi da gioco, i tifosi eccellenti e quelli anonimi (tutti simpatici, però), le sedi, lo sfondo di una città che cambia, le guerre, le partite memorabili e quelle dimenticabili, e un caravanserraglio di curiosità e aneddoti. Non ci siamo fatti mancare niente, cercando di non cascare nella trappola della retorica, che in questi casi è un attimo.
Non potevamo permetterci di sbagliare perchè il Milan, per noi e per tutti i milanisti veri, è una delle poche, solide certezze, nella buona e nella cattiva sorte.
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Poiché il Milan delle ultime stagioni è una autentica macchina da gol, un’équipe di implacabili frombolieri, un luna-park delle emozioni e un’esplosione di tabellini rossoneri, ecco che conviene estrarre dal libro alcuni frammenti dedicati ai cannonieri del passato (lontano e recente), allo scopo di mantenerne vivo il ricordo, che rischia altrimenti d’essere offuscato dalle entusiasmanti prodezze dei reparti offensivi contemporanei.
Gunnar il “pompierone”. Nordahl: dalla Svezia con 221 gol
… Tutto nasce da quello che oggi verrebbe definito un intrigo di calciomercato. Per essere più precisi, con un incidente ferroviario (solo apparentemente senza vittime), che è anche una beffa e da una micidiale randellata all’orgoglio della dirigenza rossonera. Nel dicembre del 1948 il Milan aveva deciso di rinforzarsi con il quotato attaccante danese Johannes Ploeger. Lo aveva fisicamente prelevato (col suo consenso, ovviamente) a Copenaghen, portato in volo a Parigi e da qui in treno a Milano. Tutto a cura, e a spese, del Milan.
Poi la firma: con la Juventus.
Non ci si era accorti che alla stazione di Domodossola erano saliti sul convoglio il segretario bianconero Secondo Artino e John Hansen, giocatore anch’egli danese e già in forza alla Juve. Sul Calcio Illustrato si parla di una Waterloo del giovane segretario rossonero Giannino Giannotti e di «una triste avventura con beffa finale». Si tratta invece di uno dei più grossi colpi di fortuna, di una meravigliosa sliding door. Gianni Agnelli, con signorilità e a titolo di risarcimento, consente al Milan di ingaggiare uno svedese, già opzionato dalla sua Juventus …
Dunque, nome: Gunnar; cognome: Nordahl (III); data di nascita: 19 ottobre 1921; professione: Vigile del Fuoco. Il pompiere lo faceva per davvero tanto che proprio mentre era in servizio, al centralino della sua caserma, riceve la chiamata di «un rappresentante di una ditta italiana a Stoccolma» (guarda caso la Fiat, Agnelli doveva aver proprio la coda di paglia) che preannuncia la visita del traumatizzato Giannotti. Il bilancio, comunque, che certifica la contabilità dei morti e feriti nella Waterloo di cui sopra, registra che il Duca di Wellington (Ploeger, Juventus) segna 1 gol in 16 presenze in carriera mentre lo sconfitto Napoleone Bonaparte (Nordahl, Milan) marca 221 reti in 268 presenze, di cui “appena” 220 su azione e “ben” una su rigore. Et voilà, ecco come si riscrive la storia. Et voilà, ecco come l’Avvocato si pente del proprio beau geste: «Questo Milan in passato non è mai esistito, l’abbiamo fatto grande noi nel vagone di quel treno, quando andammo a rubargli Ploeger» …
Pierino la peste
… Alzata la Coppa Italia, Silvestri saluta, e sulla panca del Milan torna il Paròn: il quale, nelle cinque partite di Coppa delle Alpi (giocate tra il 17 e il 30 giugno 1967) si rende conto di quanto sia stitica la squadra, che rimane a secco in quattro occasioni e maramaldeggia solo al St. Jakob di Basilea, contro la cenerentola del torneo. La campagna di irrobustimento sarà condotta in economia: scambi (Amarildo per Hamrin) e ‘vecchietti’ (Cudicini e Malatrasi). Fortunato, Saltutti e Innocenti smammano. E Prati? Lo vorrebbe in prestito il Monza (appena salito in Serie B), ma si preferisce tenerlo. Rimane, e gioca scampoli nelle amichevoli della preseason, subentrando regolarmente a Sormani.
Le prime prestazioni della squadra in campionato risultano discrete. Rocco alterna Mora e Golin sul lato sinistro del fronte offensivo. Sormani e Hamrin sono in grande spolvero. L’oriundo, tuttavia, conferma la sua tendenza ad arretrare: ha spiccate caratteristiche (qualità tecniche e intelligenza di gioco) da ‘falso nueve’, nonostante la stazza; e il Milan continua a difettare di un autentico ariete. Perché rischiare di spegnere gli ultimi, accecanti bagliori di Hamrin nel solito ritmo compassato e barocco degli anni precedenti? All’ottava partita (il Milan è ancora imbattuto, ma ha collezionato tanti pareggi) il Paròn si decide. Dentro Pierino Prati. Il ragazzo è mobile e veloce, forte nel gioco aereo, resistente, potente; nel suo repertorio, la legnata secca e precisa da fuori non manca. Non sarà raffinatissimo, ecco. Ma per il Milan è la svolta. Pierino ‘la peste’, con i suoi movimenti, detta a Rivera celestiali giocate … Da giovane promessa a idolo di San Siro, in un amen. Nella seconda stagione, in Coppa dei campioni, le sue reti sono decisive. Lo è, soprattutto, quella di Glasgow. Ma esorbitante sarà la sua tripletta al Bernabéu, in finale. Prodezza di cui, prima di lui, erano stati capaci solo Puskás e Di Stéfano. E che nessuno è stato, fino a oggi, capace di ripetere …
MVB e la maledizione della giacchetta di renna
Verrebbe voglia di raccontare questa storia come se fosse normale. Di descriverla come la parabola calcistica di un giocatore che, per quanto fortissimo, per quanto vincente e amato, è stato comunque un protagonista di spicco di un ciclo trionfale al pari di altri campioni. Ma è difficile riuscirci. Perché Marco Van Basten era fuori dall’ordinario,
per tanti motivi. Soprattutto non è stata tanto comune la sfortuna che a questo atleta ha accorciato la carriera. La sua eclissi sportiva, pero, non ha nulla di apparentemente drammatico, eclatante, mirabolante. Né si colora di toni luttuosi o angosciosi. Quando alla soglia dei trent’anni si smette di essere i numeri 1, è perché si fa una fine tragica o si sceglie di autodistruggersi. Nel mondo della musica i miti sorgono dalle oscurità della tragedia (Jimi Hendrix, Brian Jones, Janis Joplin, Kurt Cobain, Amy Winehouse, ma anche Luigi Tenco, solo per fare alcuni esempi). Nel calcio solitamente c’è di mezzo un aereo che casca … Ebbene per Van Basten nulla di ciò. Nessuno spunto per un filo conduttore della narrazione che ispiri toni carichi di emozioni forti. Solo delle cartilagini malconce, solo un paio di interventi chirurgici avventati o maldestri che ci hanno lasciato comunque (a essere realisti ma anche cinici il giusto) un miliardario in salute anche se un po’ dolente dopo mezza giornata passata a portare a spasso le mazze da golf. Niente di paragonabile a
drammi che si raccontano da soli. Niente a segnare la memoria collettiva o l’intimita dei propri pensieri lugubri con eventi obiettivamente terribili …
È dall’inizio che abbiamo in testa un maledetto giubbotto. Non riusciamo a far finta di niente. Il 17 agosto 1995 e il giorno in cui, malgrado l’ostinata resistenza e l’incredulita dei piu, Marcel Van Basten, detto Marco, abbandona il calcio, saluta il suo pubblico di fedeli, impartisce l’estrema unzione alla speranza (che seppure per ultima, alimentata solo da testardaggine e caparbieta, era giunta in punto di morte) di rivederlo in campo in piena efficienza. E il pomeriggio di una conferenza stampa che avrebbe potuto essere silenziosa. Che poteva essere un film muto espressionista tedesco degli anni venti, tipo il Nosferatu di Friedrich Murnau. La faccia pietrificata di Adriano Galliani (ecco, ora sappiamo perché ci è venuto in mente quel film…) e gli occhi bassi di Ariedo Braida sarebbero stati già sufficienti, avrebbero consentito anche di non accendere i microfoni. Non che poi Marco fu particolarmente enfatico o loquace nell’annuncio: «La notizia è corta. Semplicemente ho deciso di smettere di fare il calciatore. Tutto lì». A
trentun’anni non ancora compiuti abbandonava il calcio. «Tutto lì». Dopo aver giocato l’ultima partita ufficiale a ventotto anni. «Tutto lì». Dopo aver tentato per due anni di rimediare allo scherzo del destino, non rassegnandosi mai ad archiviare l’illusione di riprendere da dove si era interrotto. «Tutto lì». «Tutto li un bel corno!», imprecò all’unisono il popolo milanista …
1899 AC MILAN – LE STORIE (Hoepli)
di Michele Ansani, Gino Cervi, Gianni Sacco, Claudio Sanfilippo
464 pagine, € 29,90