……. quella erre da ufficiale di marina, gorgogliata
ignota alla scrittura, la erre di Renato, vecchio magrone
napoletano di costiera …….
A nove anni gli portarono via il padre, in un cortile di Portici
e lui a ringhiera col cuore schiacciato nel ferro a guardare sua madre
che gridava di lasciarlo andare che lui non c’entrava niente,
non era partigiano, intanto che correva verso il camion dei tedeschi
col cane che abbaiava, il piccolo cane di Renato, poco prima della cena.
La secca mitragliata pose fine e silenzio, e il padre fu portato via.
Renato, quella tua erre che sgarrula i motivetti americani dei quaranta
come ha potuto resistere se non per un’azzurra porta di cielo
inchiodata allo scialle di lei, uno scialle leggero …….
(Al compagno di stanza)
Non aveva avuto il coraggio di lasciare la poesia sul comodino.
L’aveva scritta di getto, come se stesse parlando, o pisciando.
Si potrebbe dire che la poesia somiglia a una pisciata, come qualcosa che sgorga, però da un corpo. Lo pensava mentre stava in piedi davanti all’orinatoio del reparto ortopedia, con la bottega del pigiama aperta, le stampelle appoggiate al lavandino.
Erano diventati amici tra le mura scrostate di un vecchio ospedale, era una fortuna essere capitati lì insieme, il tempo da trascorrere in quel posto non sarebbe stato poco per nessuno dei due. L’intervento che dovevano affrontare era il medesimo, solo che Renato aveva settant’anni e Roberto venticinque di meno, di solito quell’operazione si rendeva necessaria in età avanzata, tranne che nei casi come quello di Roberto, che alla fine si era arreso al dolore, l’anca non riusciva più a trasportare il suo quintale.
Renato aveva una postura che parlava aristocratico: alto, dalle movenze eleganti, con un modo di porgere la fisicità che tradiva in ogni situazione una grazia e una flemma che perfino un cane poteva riconoscere. Ma non era così. Renato era di origini umili, il suo portamento non proveniva dalla sua educazione, né dalle sue frequentazioni. Era così e basta, un innato dono di leggerezza.
Roberto aveva calcolato male, questa volta non ci aveva azzeccato, lui così sensibile ai patrimoni celati nei gesti, una qualità e un vizio che lo accompagnava sin da bambino. Di solito non sbagliava. Quella volta invece il suo sesto senso aveva preso un abbaglio, lui pensava che Renato fosse un borghese di alto lignaggio caduto in disgrazia, che aveva preservato le sue attitudini gestuali senza più la possibilità di permettersi un ricovero adeguato al proprio status. Invece Renato, davanti a una minestra esangue con rari pezzi di verdura che galleggiavano in un liquido molto simile all’acqua, gli raccontò una storia di quando era bambino, e tutto fu chiaro. Una storia terribile.
Dopo l’8 Settembre del 1943 l’esercito nazista prese il controllo della città di Napoli, e furono giornate durissime, il 12 Settembre venne proclamato lo stato d’assedio e il coprifuoco, che un paio di settimane più tardi avrebbe innescato una rivolta spontanea che nei libri di storia si ricorda come le quattro giornate di Napoli. In quei giorni l’esercito tedesco perse il controllo delle proprie azioni, saccheggiando e terrorizzando la popolazione nel caos.
Renato aveva nove anni ed era figlio unico, stava in casa con il suo piccolo cane e sua madre che stava preparando la cena, il babbo sarebbe rientrato a minuti dall’ennesima giornata in cerca di qualcosa che potesse mettere insieme il pranzo con la cena del giorno dopo. Erano tempi grami, ogni giornata era materia da inventare. A Portici, in una piccola casa di ringhiera.
Il cane – raccontava Renato – cominciò ad abbaiare ed uscì sul ballatoio, senza smettere di ringhiare. Dal passo carraio giungevano le voci secche e concitate dei soldati tedeschi, pochi minuti prima una camionetta nazista aveva parcheggiato in cortile, ma non sembrava avessero intenzioni bellicose. E poi perché mai, diceva Renato, perché mai avrebbero dovuto averne, in quella casa di corte abitava povera gente, nessuno aveva voglia di attaccar briga, tutti sognavano il pane e la fine della guerra, non c’era nient’altro da segnalare.
Proseguì nel racconto di quel giorno. Il cane abbaiava sempre più forte, e così insieme a sua madre uscì sul ballatoio: i soldati tedeschi tenevano a tiro di fucile suo padre, che ciondolava con lo sguardo atterrito, bloccato da due soldati che lo trascinavano per le spalle verso la camionetta. Sua madre cominciò a gridare: Francesco, Francé! Che è successo Francé! Lui sembrava in trance, muoveva lentamente le labbra e le parole si perdevano tra le urla dei soldati, che sembravano decisi a caricarlo sulla camionetta. Renato rimase impietrito a guardare sua madre che scendeva giù per le scale di corsa, col cane appresso: lasciatelo andare, mio marito non ha fatto niente, lasciatelo, non è della Resistenza, vi prego, lasciatelo andare!
E mentre urlava, disperata, avanzava verso Francesco che gli gridava di stare ferma, di non muoversi, ma adesso che lei poteva sentirlo non c’era niente da fare, non si sarebbe fermata.
Quando arrivò a pochi passi da suo marito un soldato spianò il mitra, una raffica secca, improvvisa, e sua madre si afflosciò senza emettere un grido. Suo padre iniziò a urlare il suo nome, ma fu trascinato sulla camionetta, e Renato non lo vide mai più. Restò paralizzato a guardare sua madre inerme, con una gamba piegata e una distesa, la testa girata verso di lui con i capelli che le coprivano il viso. Il ballatoio si era riempito di gente, tra le preghiere sommesse, i segni della croce e il suo compagno di giochi che non sapeva se gridare o abbassare lo sguardo, una vicina di casa lo abbracciò, gli mise una mano sugli occhi.
L’ultima cosa che gli rimase impressa, mi diceva Renato mentre rimestava una zucchina nel brodo, fu lo scialle di tessuto azzurro sulle spalle di lei, uno scialle leggero, che si era inzuppato di sangue in pochi secondi. Restò solo, col suo cane. La sera stessa andò a vivere con la zia, la sorella di sua madre, insieme allo zio e alle tre cuginette.
Aveva perso i suoi genitori in un incubo dal quale per molto tempo avrebbe sperato di svegliarsi per capire che tutto era tornato come prima, con suo padre che fischiettava mentre saliva le scale, e il profumo del pomodoro che si restringeva sul fornello mentre sua madre staccava le foglie di basilico. Invece dovette trovare la forza per nascondere quei fotogrammi da qualche parte dentro di sé, preservando i ricordi belli in una zona più accessibile, così che potessero traboccare in lui quando ne avrebbe avuto bisogno, nei momenti di malo tempo.
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Hai capito che è successo, caro Roberto?
Gli si era piantato una specie di chiodo nella gola, la tranquillità con la quale Renato aveva raccontato il suo inferno gli aveva permesso di seguire l’evento come se avesse davanti le immagini di un film sceneggiato da Zavattini, facce e luci di neorealismo puro. Ma non aveva impedito al suo organo vitale di sobbalzare e di stringersi al pensiero di un ragazzino di nove anni che assiste all’assassinio di sua madre e la scomparsa di suo padre in pochi secondi. Avrà dovuto zavorrare l’anima per non volare via anche lui.
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Ma cosa mi racconti, Renato?
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Eh, mio caro, ti racconto quello che è stato, è andata così. Ma ero piccolo, e meno male che ero un ragazzino con la testa sulle spalle. Non c’è un carico che non si possa sopportare, amico mio, e i bambini hanno una forza speciale, il futuro li chiama, ogni giorno hanno una sete da placare, e qualcosa da imparare. Il movimento delle cose aiuta il cervello. E poi sono stato fortunato, mia zia è stata come una mamma, ‘na santa donna…
Il ferroviere Renato, che inizia giovane a fare il controllore e poi, piano piano, diventa un impiegato di prima categoria. Il suo orgoglio.
Da come si muoveva, per quegli occhi azzurrissimi, Roberto avrebbe scommesso su una vita passata in mare. Lo immaginava vestito da ufficiale di Marina, sul ponte della nave con un fascio di carte nautiche sottobraccio, che camminava verso la sala comandi col cappello, le mostrine, la camicia bianca con le spalline. Anche in questo si era sbagliato.
Le amicizie sono figlie delle storie, e diventano storie a loro volta. Così, avendo davanti almeno tre settimane di forzata convivenza, da quel racconto di sangue e dolore ci fu l’abbrivio per un’altra storia, scandita da tutt’altre vicissitudini: il caffè al distributore automatico, la scopa, la sigaretta in cortile, le chiacchiere torpide nel primo pomeriggio.
Aveva una moglie umbra, Natalina, che aveva conosciuto a Roma, dove si era stabilito per un breve periodo quando aveva una trentina d’anni.
Da tempo vivevano a Pavia, dove aveva accettato di trasferirsi a fine carriera. A Napoli ci tornava raramente, ma non mancava mai le vacanze estive a Positano, suo luogo d’elezione. Quell’anno non ce l’avrebbe fatta, il recupero sarebbe stato faticoso, e Positano è luogo impervio, di scalinate e mare di scoglio, poco adatto alla rieducazione di una protesi dell’anca. Non avrebbe abdicato per una meta di spiagge dozzinali: o Positano, o niente.
Il fatto che Roberto provenisse da una stirpe di pasticceri di prevalenza siciliana (ma anche nella sua ascendenza lombarda c’erano tracce di offelleria, come si dice in milanese) procurava a Renato la fregola di mettere a confronto le tradizioni campane con quelle siciliane. Era uno dei loro giochi preferiti, un tormentone al quale non sapevano rinunciare, bastava che in un qualsiasi momento della giornata, spesso quando sopraggiungeva il languore di metà pomeriggio accompagnato dalla noia sottile che si vive negli ospedali, uno dei due accendesse la miccia.
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Certo che una bella fetta di cassata sarebbe l’ideale…
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Troppo pesante, buona ma troppo pesante, vuoi mettere con una fetta di pastiera? N’altra cosa…
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La cassata sarà pure più pesante, ma fa gorgheggiare la papilla, caro il mio Renato, al primo boccone ti conquista.
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Eh si, la papilla ti gorgheggia, ma a me la cassata mi pare troppo doce… squisita, non si discute, ma io non faccio cambio. Una volta la pastiera me la facevo spedire da Scaturchio, a Pasqua, ma da qualche anno mia moglie la fa pure più buona.
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Anche la cassata è un dolce pasquale, stasera dico a mio padre di portarne una, in questa stagione dovrebbe essere ancora in produzione.
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Allora avvisami, che faccio portare la pastiera da Natalina, e facciamo il confronto, e vediamo chi ha ragione.
L’appuntamento con le due torte era stato fissato per il lunedì seguente. Avevano evitato di organizzare l’evento durante il fine settimana, troppa gente, il match doveva svolgersi con tranquillità, soprattutto per cavarsi la voglia di esagerare senza l’obbligo di dividere la posta con troppi amici e parenti. Entrambi convenivano che si trattava di due giganti della pasticceria mediterranea, il rispetto era reciproco e sentito. La cassata è un dolce di origina araba, e i più ne accreditano il significato lessicale nella definizione di “torta di cacio”. Gli anglosassoni direbbero cheese-cake, ma qui stiamo all’Università, mica all’asilo.
La pastiera invece ha origini autoctone, lontane e indecifrabili, la leggenda vuole che la sirena Partenope emergesse all’equinozio di primavera per salutare le genti del Golfo, ricevendo in dono gli ingredienti che poi gli dei in persona ebbero il genio di trasformare nella prima pastiera che le voci antiche riportano.
Gli ingredienti di base della cassata sono il pan di Spagna, la pasta di mandorle, la ricotta di pecora, la frutta candita, la vaniglia. Quelli della pastiera sono la pasta frolla, il grano cotto, la ricotta di pecora, la frutta candita, l’acqua di fiori d’arancio. Pare che la cassata, come la pastiera, iniziò la sua storia con l’involucro di pasta frolla, ma nel periodo normanno i monaci del convento di Martora si inventarono la pasta reale, detta per l’appunto martorana. Da lì le differenze tra i due dolci sono decisive, perché nella cassata tutto viene composto a freddo.
Torte Pasquali, torte di resurrezione. Ne avevano bisogno.
Il confronto non spostò di molto le loro convinzioni, ma la pastiera di Natalina era eccellente. Lei, che era nata e cresciuta in Umbria, come spesso accade nei matrimoni meticci, aveva imparato svariate ricette della tradizione napoletana, spesso superando i suoi maestri, che poi erano le zie e le cugine di Renato. Anche la madre di Roberto aveva imparato un sacco di ricette siciliane, la sua pasta alla Norma e la caponata non avevano nulla da invidiare alle versioni originali delle zie di Catania.
Eh, vedi che fortuna, questa si chiama fortuna, caro Robbé…
La fortuna. Bisognerebbe essere tutti come Renato, che ad ogni cosa attribuisce un valore nel tempo vivente del sentimento, e chiama la fortuna per un sacco di cose che quasi non si vedono.
È un rabdomante di bontà, e non lo sa. Oggi mi dimettono, non ho il coraggio di lasciare la poesia sul suo comodino, immaginare la sua commozione è troppo, non può nemmeno muoversi dal letto, non potrebbe sublimare con un’ultima passeggiata, un’ultima sigaretta. Sono i casi in cui l’invisibile chiama un silenzio complice. Meglios non dire, meglio non sapere.