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Claudio Sanfilippo, Krapfen

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Claudio Sanfilippo

Elide ha tredici anni. Stamattina tocca a lei aprire la tabaccheria e dare un occhio a Pasquale, il barman, fare in modo che non batta la fiacca fino a che – verso mezzogiorno – non arriverà suo padre con un pacco di radiografie fasulle sotto il braccio. Servono a coprire la scappatella extraconiugale che si concede ogni tanto, rigorosamente di prima mattina, per ragioni di metabolismo genitale. Quando alla cassa c’è Elide tutto il locale fila dritto, l’atmosfera si stabilizza su tonalità asettiche e il rumore delle tazzine nei lavelli rimbalza nelle tempie degli avventori. Elide sfoglia scontrini, distribuisce merce da banco senza pronunciare una parola. Ringrazia stringendo appena le guance mentre il grigioscuro delle sue fossette tradisce il tormento di quel silenzio. L’ingenuità di sua madre è un motivo di odio quasi più forte dell’inclinazione al tradimento del padre, è un pensiero che annega le parole e respinge il suono della voce. Infatti Elide non parla. Si scioglie un poco se qualcuno le chiede di aprire il biliardo, le piace ascoltare il suono delle billie sulle sponde usurate, è una specie di mantra che rispecchia le sue intermittenze.
Il suo viso contratto si distende, riesce a stiracchiare qualche sguardo, tra uno scontrino e un saluto risponde solo con un cenno, mentre attende che il rollìo sull’ardesia la anestetizzi in un calice di pochi, regolari tonfi. Elide è magra, ha i capelli tagliati come un ragazzo e pupille di donna che non riescono a celare la tristezza: il suo corpo sta cambiando e in verità non sa bene come.
Quando c’è lei nel bar non si fa credito, lo sguardo di Elide non lo consente, detta le cadenze di un ritmo dove non c’è corruzione. Tutto sommato la clientela sopporta a dovere lo sforzo morale che la presenza di Elide provoca in quelle mattine: tutti la rispettano e qualcuno, più tardi, si complimenterà con suo padre per l’orgoglio che doveva procurare in un genitore il fatto di avere una figlia così dedicata. Qualcuno avverte il suo disagio, ma nessuno oltrepassa il confine, nessuno che osi stanare. Suo padre non chiude mai gli occhi, come se avesse le palpebre paralizzate contro le orbite; quando era piccola le faceva un po’ paura, ma si era abituata a ben altro. Però che strani occhi, pensava. Nel bar cercava un modo per capire quello che non le era mai riuscito in casa, ma il tempo era stento. S’immaginava sua madre struccata, distesa sul divano con le persiane chiuse anche d’estate, aggrappata a se stessa, ne percepiva il corpo come sospeso nella crisalide di un sogno interrotto. Se sua madre fosse scappata, se solo avesse avuto il coraggio. L’estate passò, poi un anno e poi due, finché una mattina di settembre piena di sole, col mercato rionale festante di voci e colori proprio davanti al bar, Elide siede a un tavolino e consuma la terza colazione. Ad ogni cappuccino, un krapfen con la crema. Da qualche tempo Pasquale ne tiene via qualcuno per lei, nel caso. Ai clienti che le si avvicinano per pagare la consumazione dice di servirsi pure da soli, di passare a saldare con comodo, che c’è tempo. Pasquale ha dovuto raddoppiare gli sforzi, corre appresso a tutti, salta dal bancone alla cassa, serve ai tavoli e lava le tazzine, forse è l’unico che le vuole bene. Suo padre ha gli occhi troppo spalancati per vedere tutti quei vetri rotti sul pavimento, in quella stanza non sente alcuna ragione per entrare. Quando gli ha detto che quest’anno avrebbe smesso di studiare le ha risposto “va bene” senza guardarla, mentre riscaldava gli spaghetti della sera prima, rigidi e incollati alle pareti del pentolino. Dopo qualche secondo aveva aggiunto “lavorerai nel bar”, con gli occhi sulla caffettiera. Sua madre era già a letto, evaporata in un sonno chimico. Elide tiene le gambe accavallate con un po’ di civetteria, è l’unica parte del suo corpo che può lanciare frecce luminose, la sponda che la tiene alla confidenza di sé. L’unica cosa che le sembra di poter salvare, e il pensiero la affatica. Senza contare che il parrucchiere ha fatto un pessimo lavoro. Legge un rotocalco sporcando un titolo con la schiuma del cappuccino. Ha l’occhio largo, ora, aperto su tutto quello che viene. In poche parole: non ci capisce più niente. E’ raggelata dall’impotenza di non avere scelta, i sentimenti sono nel buio del sacco, braccati. È preoccupata del suo seno un po’ troppo grande, capogira soffermando la coda dell’occhio sul chiosco di fiori, sono tutte donne quelle che comprano i fiori, a casa sua non ricorda di averne mai visto uno. Tra poco suo padre arriverà con una nuova radiografia sotto il braccio. Dev’essere un’infermiera. Niente di strano, niente di male. L’Amedeo, che avrà sessant’anni, le guance lasche del segugio da riporto e due fessure al posto degli occhi, si avvicina alla sua nuca cotonata per sussurrare qualcosa. Lei non dice nulla, ma questa volta il suo sguardo trabocca odio, sul viso dell’uomo sanguina un sorriso idiota. Ha una borsa insolitamente grande appoggiata alla sedia, il suo passato la preserva da domande ingombranti. A sua madre ha scritto col rossetto sullo specchio del bagno: “ciao mamma, ti aspetto, Elide”. Forse basterà per evitare che trasmettano una sua foto in prima serata, la lasceranno in pace. Il biglietto del treno è già spiegazzato, l’ha maneggiato troppe volte e le sembra già vecchio, come se il viaggio l’avesse già fatto. Un po’ era vero, ma era un viaggio diverso. Ha messo un krapfen nel sacchetto, manca solo il coraggio di mettere il piede sul cavo e andare, senza guardare le onde di sotto, che altrimenti si cade. Andare.

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