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Come diventare Anna Karenina. Intervista a Eleonora Sottili

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Eleonora Sottili è nata a Viareggio nel 1970. Si è laureata in Psicologia Clinica e per un po’ ha lavorato in un ufficio di assicurazioni, incarnando così una sintesi perfetta di tutte le idiosincrasie di Woody Allen. All’età di trentatré anni ha deciso di smettere con Freud e concorsi di colpa, si è ricordata che alle scuole elementari aveva scritto un romanzo sulle pecore, e che il suo sogno era da sempre quello di raccontare storie. Così ha iniziato a frequentare la Scuola Holden. Oggi scrive, insegna e vive in un paese medievale in cima a un cucuzzulo a 266 metri sul livello del mare. La sua casa invece di metri ne misura 55, probabilmente una volta era una stalla e, chissà, forse ci tenevano anche delle pecore. In tal caso tutto tornerebbe. È autrice de Il futuro è nella plastica (Nottetempo, 2010), Se tu fossi neve (Giunti, 2015), Senti che Vento (Giulio Einaudi editore, 2020). L’11 giugno 2024 è uscito per Giulio Einaudi editore il suo nuovo romanzo, Come diventare Anna Karenina (senza finire sotto un treno).

Mario Schiavone

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Da docente di scrittura creativa con diversi libri pubblicati da editori prestigiosi, come vedi lo stato di salute dell’editoria contemporanea in Italia?

A scuola i ragazzi del Master incontrano alla fine del percorso i professionisti dell’editoria per raccontare loro il progetto a cui hanno lavorato. Trovo questo momento sempre molto emozionante e c’è una bellissima energia. Editor e agenti ascoltano con grande attenzione e curiosità le storie ed è capitato già diverse volte che qualche ragazzo venga contattato per la pubblicazione. Non sono un’esperta del settore, ma trovo che in Italia vengano pubblicati ogni anno moltissimi libri belli, sia nella narrativa che nella saggistica. E le case editrici italiane fanno un lavoro importante sui romanzi, c’è attenzione e cura, un editing attento, molto rispetto dell’autore e della sua storia.

Quali sono gli autori italiani e stranieri, viventi e non, che reputi canonici per la tua formazione di appassionata lettrice di storie?

In realtà i miei Imprescindibili – come vengono chiamati nel mio romanzo i libri a cui proprio non si può rinunciare – sono moltissimi. Domenico Starnone, di cui ho amato ogni romanzo, ha una lingua bellissima e una conoscenza assoluta della grammatica dell’umano. Poi Philipe Roth, l’ho letto tutto e credo che sia sulle sue pagine che ho imparato a scrivere. Elif Batuman, ironica e intelligentissima. George Perec, il più originale, il più spiazzante. Emmanuel Carrère, affilatissimo, e ancora Antonia Susan Byatt, per la scrittura e per la profondità culturale dei suoi romanzi, Virginia Woolf, di cui ogni estate rileggo Gita al faro. Insomma potrei continuare per pagine e pagine.

Qual è stato il primo racconto in prosa che hai letto, scritto da qualche autore per te poi divenuto importante nella tua formazione di lettrice?

Il primo romanzo in assoluto che ho amato è stato Il Conte di Montecristo di Dumas. Ero alle scuole elementari e da leggere ci davano soltanto storie edificanti e piene di buoni sentimenti, che io trovavo noiosissime. Ricordo ancora un libro su una specie di pulcino che faceva amicizia con tutti ed era buonissimo, Cipì. Lo detestavo. Poi un giorno trovo nella libreria dei miei questo romanzo di Dumas, in copertina c’era un uomo abbarbicato su uno scoglio, tutto intorno il mare in tempesta e sullo sfondo un terrifico castello. Ho iniziato a leggerlo e il protagonista era buono soltanto nelle prime pagine, poi diventava spietato e vendicativo. Molti anni più tardi ho saputo che Dumas aveva scritto quel romanzo per vendicare il proprio padre, chiuso in galera ingiustamente. E ancora oggi penso che la vendetta sia un ottimo motivo per scrivere un romanzo.

Qual era la via di accesso ai libri, da piccola, rispetto al luogo in cui sei cresciuta?

Innanzitutto la libreria di casa. Mia madre è sempre stata una grande lettrice e perciò nel nostro salotto avevamo una parete intera occupata soltanto da romanzi, saggi e libri d’arte. Sui piani più alti c’erano poi tutti i volumi che aveva letto mio padre da ragazzo, Dumas, appunto, ma anche Salgari, Jule Verne, Conrad e Stevenson. Tempeste e naufragi, tesori nascosti e duelli.

Poi anche a scuola, ovviamente, ci si potevano procurare dei libri. Ma devo essere sincera, a scuola negli anni in cui l’ho frequentata io, i libri venivano scelti in base al loro valore educativo ed era difficile – o almeno per me lo è stato – provare il piacere della lettura. Ho capito quanto poteva essere meraviglioso trascorrere un pomeriggio intero con un romanzo in mano soltanto quando ho scoperto Franz Kafka e Gabriel Garcia Marquez, quando ho capito che le storie potevano trasformare il mondo che avevo intorno in qualcosa di meraviglioso e sorprendente.

Quanto la formazione scolastica avuta da giovane ha alimentato la tua voglia di leggere e scrivere storie?

L’ho già detto, in realtà con il piacere della lettura la scuola ha avuto davvero poco a che fare. Invece devo di sicuro alla mia maestra delle elementari la voglia di inventare delle storie. Spesso ci dava la possibilità di scrivere un racconto di fantasia e mi piaceva moltissimo quando accadeva. Adesso insegno alla Scuola Holden Scrittura Creativa. Con Scrittura Creativa si intende proprio l’atto del narrare, di costruire un intreccio, creare dei personaggi, dar loro un carattere e una voce. È un gesto molto complesso che in realtà allena e sviluppa in chi lo compie intelligenza, progettualità, complessità di pensiero e immaginazione. All’estero i corsi di Scrittura Creativa sono compresi nel programma scolastico o universitario, mentre in Italia questo non accade e personalmente la trovo una grande mancanza. Leggere e scrivere bene insegnano prima di tutto a pensare bene

Come – e quando lavori – alle tue storie da scrivere rispetto all’insegnamento?

Spesso accade che abbia tempo per le mie storie soprattutto nei mesi estivi quando i corsi a scuola sono sospesi, ma devo dire che se poi il racconto parte, se mi appassiono a quello a cui sto lavorando, appena ho un attimo mi metto lì e scrivo. Scrivere, del resto, è come correre, serve costanza ed esercizio, forse a volte anche un po’ di accanimento. E comunque quando cominci a vedere i tuoi personaggi, ad amarli, non vedi l’ora di stare con loro, o almeno a me accade così. Mi metto davanti allo schermo e quando alla fine mi alzo dalla sedia, mi rendo conto che sono trascorse tre ore e non me ne sono neppure accorta, perché è come se vivessi davvero in un altro spazio, in un altro tempo rispetto a quello quotidiano.

Che consigli concreti dai ai giovani aspiranti autori – che incontri nei tuoi corsi – quando ti domandano dove trovare buone storie da raccontare?

Le storie sono prima di tutto intorno a noi, nella nostra vita. A volte do un esercizio che chiamo Scrittura en plein air, e suggerisco ai miei alunni di fare come Manet, Monet e Turner che uscivano con colori e cavalletto e andavano a dipingere nei campi, lungo le sponde di un fiume o in qualche angolo della città. Ecco, ai miei studenti chiedo lo stesso, di passeggiare per strada armati di macchina fotografica (o cellulare) e blocchetto. Di guardarsi intorno, fare qualche scatto a un dettaglio che li colpisca, registrare un suono, segnarsi sul taccuino una discussione sentita per caso. E appuntarsi il nome delle vie percorse, la mappa di incroci e angoli, di prendere una casa, un bar, un negozio e farne il luogo del loro racconto e poi di scegliere anche un paio di persone, che diventeranno i loro personaggi.

Quindi tornano in classe e scrivono proprio a partire da questa raccolta.

Di solito vengono fuori racconti bellissimi, sorprendenti, perché in effetti è sorprendente la realtà che abbiamo intorno in ogni momento, anche se spesso non ci facciamo caso. Ecco, il primo consiglio che do agli aspiranti scrittori è fateci caso, fate attenzione. L’attenzione è tutto per il nostro mestiere. Essere capaci di fare attenzione e di meravigliarsi.

Oltre alla scrittura in prosa di romanzi e racconti, ti sei mai occupata di altri tipi di scritture rispetto a medium narrativi come cinema e fumetto?

Pochissimo. Ho soltanto scritto insieme a Sara Benedetti un soggetto per il cinema che è ancora in attesa di essere sviluppato in una sceneggiatura, e poi ho scritto qualche testo teatrale, ma il luogo in cui mi sento più a mio agio è la narrativa e in particolare il romanzo.

Che valore ha, per te, il gesto antico di leggere e scrivere storie, in questa epoca complessa?

Ha un valore grandissimo. L’essere umano è un animale narrante, per noi raccontare è un gesto istintivo come spiega Jonathan Gottschall nel suo bellissimo saggio L’istinto di narrare. Non possiamo farne a meno e cominciamo prestissimo. Quando un bambino dice, facciamo che io ero un astronauta, facciamo che io ero un cavallo, ecco, questa è già una primissima forma di narrazione. L’uomo ha bisogno di narrare per capire, per decodificare la realtà, per dare un senso alla propria vita, alla propria storia. E perciò più l’epoca in cui viviamo è complessa, più noi abbiamo bisogno di comprenderla e di conseguenza di narrarla, e di narrare noi stessi.

Quali temi affronta la storia scritta a cui stai lavorando in questo periodo?

In realtà io non comincio mai a scrivere pensando ai temi della mia storia, parto piuttosto dai personaggi e dai loro problemi. A me interessa vedere come i personaggi se la cavano nelle difficoltà, mi interessa vederli quando si innamorano e soffrono, o quando finalmente scoprono cosa desiderano davvero e per quel desiderio sono pronti a tutto. Ecco, è in questo modo che scrivo, dei temi mi interessa proprio poco. Sono d’accordo con Calvino quando dice: “Le storie sono personaggi che fanno cose con gli oggetti”. Adesso è appena uscito Come diventare Anna Karenina (senza finire sotto un treno) e perciò, seppure io stia pensando a una nuova storia, è talmente fragile che non posso parlarne. Aspettiamo e vediamo cosa faranno questa volta i miei personaggi…

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