In Paperino e il relax professionale l’antieroe disneyano per eccellenza, grazie all’intuizione di Pico de Paperis, riesce finalmente a trasformare la sua ambizione di pigrizia in un lavoro monetizzato. Non diventa collaudatore di materassi, come aveva sempre sognato, bensì uno di scrittore di successo prima, con il Manuale di Pisolinologia, e un dormiglione professionista poi: il suo lavoro consiste nel dormire in pubblico sulle amache messe in vendita da Zio Paperone per dimostrarne l’efficacia. Peccato che questa costrizione avrà su di lui l’effetto contrario – vera e propria beffa – di renderlo insonne. Così racconta Gianfranco Marrone in La fatica di essere pigri (Raffaello Cortina Editore, 2020), nuovo capitolo del filone editoriale dedicato al tema della pigrizia. Di cui, a parer mio, c’è sempre bisogno. Il fatto stesso di riportare in libreria un tema del genere denota la necessità generalizzata di ripensare il valore della pigrizia, e della sua nemesi (solerzia o lavorismo che sia), nelle nostre società. È quello che, nel mio piccolo, ho provato a fare anch’io negli ultimi anni (se avete voglia di approfondire, i libri andate a cercarli voi, non siate pigri).
Da grande appassionato del tema e collezionista di “letteratura pigra” non posso dunque che plaudere a questo nuovo studio, interessante per il suo sguardo semiologico. Il cuore del libro è infatti dedicato all’analisi delle diverse esperienze di pigrizia che hanno caratterizzato la letteratura e l’immaginario dell’Otto e Novecento, da Oblomov fino a Paperino, appunto. E non è sempre facile dare un significato univoco alla pigrizia, anzi. La pigrizia, come scoprirete leggendo queste pagine, è ambigua e ambivalente, può essere una condizione, come per Snoopy, o una conquista, come per Paperino. Può tendere alla mollezza dell’ozio o alla trasgressione dell’accidia. Stupisce la moderazione del racconto di Marrone, tradito da una quarta di copertina che recita: “In un’epoca che glorifica incessantemente la prestazione […] il non fare nulla è tutt’altro che scontato. Per questo va perseguito, rivendicato come un diritto, praticato come un esercizio di libertà”. Sprone che fa venire subito in mente i grandi teorici, che l’autore cita nella prima parte del suo libro, della pigrizia come forma di resistenza a un sistema che ci vuole tutti zelanti (diremmo oggi) “imprenditori di noi stessi”. Tradizione perlopiù britannica: Stevenson, Jerome, Wilde, Russell, Hodgkinson, ma che vede fra i suoi più feroci militanti un francese, Lafargue (genero di Marx), autore del celebre Il diritto alla pigrizia, e un italiano, Titta Marini, creatore del Fronte dell’ozio. Ma anche se questo libro non si inserisce in questa tradizione battagliera, coglie nel segno fin dal titolo, mostrando quanto sia faticoso oggi potersi abbandonare alla pigrizia. In fondo, tutti ci immedesimiamo un po’ nel povero Paperino, costretto a lavorare per saldare i debiti con lo zio, ma che non sogna altro che tornarsene a riposare sulla sua amaca.
Stefano Scrima