Il fatto incontestabile è che oggi si vive per vendere, comprare e consumare. Non voglio dare a questi verbi portanti del nostro agire nessuna sfumatura morale (o, meglio, immorale). È un dato di fatto. Nell’epoca del capitalismo come fase ultima della storia – semplicemente perché non è più possibile immaginare un futuro diverso, figuriamoci se una rivoluzione di qualunque tipo potrà mai più verificarsi nelle nostre stanche membra ammaestrate – ciò che facciamo, tutto il giorno tutti i giorni, è vendere, comprare e consumare. Perfino una cosa che all’inizio sembrava così innocua come i social network, evoluzione degli abbastanza innocui blog, è diventata una lotta all’ultimo sangue per il nostro posizionamento sul mercato. Anche sparare una cazzata fa parte della strategia, e finanche quando non ne siamo consapevoli – anzi, è proprio grazie all’inconsapevolezza che si perpetra il gioco, nella misura in cui anche la vita è un gioco (abbastanza deprimente). Che cos’è questo? Chiamiamolo postmoderno per mancanza di altri termini. Ci siamo dentro da un po’, non ne vediamo la fine perché, come dicevo, fine non c’è, ma vediamo benissimo com’è fatto al suo interno. Lo si può studiare, criticare, basta non illudersi di poter cambiare le cose. È normale, detto questo, che in un mondo che si regge sulla compravendita di cose, sentimenti, esperienze, ci si debba inventare sempre nuove strategie per emergere, per risultare attrattivi, altrimenti, se non vendi, soccombi. Certo, soccombere in realtà non è poi tanto male, nel senso che non facciamo che morire e molto spesso non facciamo che bramare la morte (parafrasando la “pulsione di morte” freudiana) come compimento di questa dolce sofferenza che è la vita, che tuttavia ci sussurra nell’orecchio che è bene continuare a vivere ancora un po’ – non aver fretta, tanto morirai comunque. È strano, ma le immagini di orribili malattie stampate sui pacchetti di sigarette non spingono affatto a smettere di fumare, anzi, aumentano le vendite soprattutto fra i giovanissimi che non vogliono certo sentirsi dire cosa devono fare della loro vita. E io sono d’accordo, ci mancherebbe.
Anche se mi dà fastidio pensare che qualcuno lucri sulla loro autonomia e sacrosanta voglia di morire. Io pure, ogni volta che mi sento in debito con la vita, faccio qualcosa di mostruosamente stupido come comprare un disco ingiustificatamente costosissimo per poi restare al verde fino alla fine del mese. Evidentemente voglio morire e ammetto di averlo sempre voluto fare. Mi sento molto giovane, nonostante l’età avanzi in modo vertiginoso. Ma questo non centra niente con le immagini spaventevoli dei pacchetti di sigarette, sono andato fuori tema pensando al piacere dell’autodistruzione (altro motivo per cui amo, come un dio postmoderno, le rockstar morte giovani). Centra però l’attrazione o il fascino che proviamo al cospetto del perturbante (Unheimlich) inteso come inorganico, caratteristica propria della morte, dell’annullamento, che si manifesta anche come informe, inquietante, inspiegabile, ciò che sfugge alla ragione. Perché ci attrae? Non lo sappiamo, ma ci attrae. Ma se fa paura? È proprio quella che ci piace. E quando questo codice inconscio viene decifrato e applicato al linguaggio quotidiano – pubblicitario, comunicativo, artistico – niente e nessuno può farci venire paura di avere liberamente paura. Per Freud Unheimlich, che in tedesco significa “non familiare, estraneo”, indica ciò che ci è familiare ma che ci è tenuto nascosto perché rimosso e perduto da qualche parte nel nostro inconscio. Il perturbante, in particolare messo in atto dall’arte (Freud prende ad esempio i racconti di E T.A. Hoffmann), riporta a galla quel contenuto rimosso dandogli un significato, permettendoci di intensificare il rapporto con la nostra stessa esistenza.
La novità del postmoderno, epoca di esaltazione della pulsione sulla ragione ormai forma obsoleta di interpretazione della realtà (e di culto della tecnologia come magia che dissolve ogni tentativo di aggancio al lucido comprendere dei meccanismi che regolano le nostre vite), è che la teoria freudiana del “perturbante che ci affascina” (che sia vera o no, funziona) è stata applicata alle strategie di vendita e di comunicazione web per tenerci costantemente in scacco come gattini alle prese con bellissimi e inquietanti bastoncini piumati con campanellino integrato. Probabilmente le ditte del tabacco sono state costrette ad apporre gli shock advertising sulla loro merce, ma in fin dei conti non è andata loro così male, mentre altre multinazionali hanno scientemente sfruttato il perturbante, non a caso assoldando videoartisti rinomati, per fare la loro fortuna. Ma di questo e altro, e con una rara profondità di analisi, ne parlano Alessandro Alfieri e Chiara Gargiuli in un libro pubblicato da Rogas Edizioni pochi mesi fa e che si intitola, pensate un po’, Perturbante postmoderno. Immagini inquietanti nella comunicazione e nell’arte del XXI secolo.