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Come un giovane uomo

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Alcune impressioni sul memoir

Da sempre aspettavo che la neve tornasse a Roma. Si apre con questo desiderio il primo lavoro in prosa del poeta Carlo Carabba. Il ‘romanzo’ avrebbe dovuto essere un breve racconto intitolato “Neve” che, a dire dell’autore, sarebbe stato più adatto di una poesia, una poesia sulla morte di Mascia, nel ricordo di lei e del transito dell’autore verso l’età adulta, il corpo di Mascia […] che ora, ridotto a cenere, non esisteva più su questa terra, riemergeva integro dalla mia memoria, come nei numeri classici della prestidigitazione in cui il coniglio è tratto dal cilindro[…]; Mascia, la migliore amica dell’autore, proprio il giorno in cui la nevicata esaudisce il desiderio di Carabba, è coinvolta in un incidente in motorino.

Il racconto si mantiene, per la sua struttura a blocco unico, un flusso ragionato e calcolato lungi, però, dall’essere freddo e antipatico, nella scrittura di un memoir che è una vera e propria giostra attorno al perno del vuoto del soggetto, dell’esistenza mancante che è l’essere parlante umano, la cui singolarità, mai univoca, non trae la propria fondatezza da un supposto unicum mente-corpo ma, come scrive Carabba, al contrario trova la sua origine da un profondo vuoto al centro del mio essere, come se quella possibilità di essere tante personalità diverse mostrasse che ero privo di una personalità mia. Vuoto che è pratica della mancanza definitiva, fisica: la morte, di un’amica, della nonna, la nostra morte. Dovremo morire. Il punto della questione è altrove: nell’indecisione, nell’incapacità, del narrante di incontrare il cadavere dell’amica.

Un memoir, ‘in memoria di’, che è pure un resoconto di un passaggio esistenziale e lavorativo, dunque. La transizione, il grido di passaggio, urla di dolore. Sofferenza che ha bisogno di una complessità rituale, viscerale. Descrittura di attimi espansi e riparativi. A ben vedere, mi pare, tutto il percorso del soggetto Carabba, in questo libro, si presenta come un lungo atto di riparazione. La morte, la firma del contratto di lavoro, il passaggio all’età adulta e la fine dell’infanzia: la fine del mondo interiore e oggettivo ha molti colori, cupi, fulgenti. Nella transizione rizomatica di una prosa che ha la forma di un frattale: segmenti vitali nervosi, tesi, caldi. Fallimenti che si ripetono e che bloccano Carabba al bivio tra ragione e desiderio: andare al funerale o no? perché no? perché c’è un contratto da firmare, il lavoro. Il senso di colpa, il senso di disagio, quello che era del fanciullo Carabba e poi del giovane, mutate le circostanze e le questioni, ora abita l’adulto: come una macchia di olio che non vuole andare via e intorno alla quale si deve colorare un paesaggio che la celi agli occhi impietosi di sé stessi, la colpa è piovra. L’impossibilità di un lutto, di sfiorarne una possibile elaborazione; la morte di sé ai propri nuovi occhi adulti. Il dolore che diventa cripta.

Ragione e desiderio che lacerano le scelte e procrastinano le azioni, sono come l’anima e l’ombra in quel racconto fantastico, in quel romanzo del 1814, un po’ galeotto, del poeta, pure lui come Carabba, e botanico tedesco, Adalbert Von Chamisso, la storia meravigliosa di Peter Schlemihl, il cui autore e il cui personaggio accompagnano, fantasmatici, il percorso di Carabba.

Costanti, per altro, sono i riferimenti ai maestri della Letteratura. Nel memoir si parla di scrittura scrivendone. Quasi un metatesto o forse un sottile timore che le fila del racconto non reggano.

Carabba è uno straniero nel suo stesso mondo e fa del complesso psichico una scrittura raffinata, matematica, dell’anima, complessa. Mai una lamentela: non ci tratta, noi lettori e lettrici, da confessori, né ci ammorba con seducenti manierismi per egotismo proprio, nessun autocompiacimento. Al contrario: profondo è il rispetto e l’ascolto di chi ascolta. Umano.

Un organismo complesso, certo, mai complicato, la cui Complessità sfida e calcola un meccanismo letterario preciso ma senza tralasciare l’emozione, mai oscuro, difficile forse, della difficoltà a tradurre in parole la profondità del dolore. Anzi! Il narrante che sul treno, il treno freccia del tempo che corre e macina l’industria e gli amori dell’uomo, il narrante che evita il dolore, la vergogna, il disagio, il narrante immerso nella bruma della nostalgia e della solitudine, arriva diritto al cuore. Non c’è freddezza, certo, ma nemmeno sentimentalismo, c’è un io che narra, ma non un egocentro, un egolatra, rischio che i nati scrittori dopo gli anni Sessanta non evitano e anzi ostentano orgogliosamente.

Nel paesaggio invernale, nell’architettura, negli oggetti di casa, aleggia il fantasma malinconico della mancanza, dell’insoddisfazione. La morte dell’amica è la causa scatenante di un vuoto, di una mancanza più profonda e remota. E poi la neve. Bianco che copre.

L’oblio che cristallizza e ferma. Attutisce. Morbida i colori e i clamori.

Il libro di Carabba è, dovrebbe essere, il primo di un progetto più ampio. Questo primo passaggio si chiama Neve. In questo primo blocco esistenziale ci sono Cose, oggetti elevati a simbolo, degli anni che riguardano una generazione fascinata da una medesima immaterialità, musicale o filmica: […] Kill Bill […], il telefilm Smallville […], Sei gradi di separazione, la serie televisiva Lost, The O.C., La vita è meravigliosa, Chi ha incastrato Roger Rabbit. Immagini e musica, nel treno, potente metafora del passaggio, del transito, da Milano a Roma, attraverso la campagna Toscana meridionale e l’Umbria: ma, curiosamente, non mi fermai sulle canzoni di The Bends o OK Computer, i due album che ascoltavamo in quel periodo che sapevo grossomodo a memoria, ma su un disco che conoscevo appena e non amavo, e che al tempo del concerto non era ancora stato scritto, Kid A.

In Proust erano i dipinti e la musica da camera, qui sono le serie tv e i dispositivi auricolari che isolano dal rumore del mondo, lontani parenti delle pareti di sughero in cui Proust isolava acusticamente la sua stanza da scrittura. C’è Busi in questa scrittura. C’è infine il lungo resoconto (Il male oscuro) suggerito dal proprio psicoanalista a Giuseppe Berto, è una scrittura che non può definirsi, secondo me, altro che ‘desiderante’.

Desiderio combattuto tra legge universale e bisogno individuale, nell’impossibilità, intrinseca al registro simbolico della scrittura, di dire tutto il reale della memoria, del corpo.

Oggetti e soggetti, per quanto frammenti autonomi di autobiografia, che amplificano la dignità del loro significato. Dalle foto in palestra, luogo in qualche modo di rinominazione del proprio io, i nomi sono significanti, rivelano una fuga che esplode i loro nessi oltre l’automatismo dell’abitudine, il nome è transito che lega accadere e memoria, tratto unario che fa del corpo una singolarità trascendete, volli credere che l’attribuzione di un nuovo nome, caratteristica dei battesimi e delle conversioni religiose, fosse l’opportunità che andavo cercando per cambiarmi in qualcosa di diverso da me, come se le sillabe che, d’impulso dopo lunghe discussioni, i miei genitori avevano scelto e che recavano con loro un omaggio al nonno che non ho mai conosciuto, contenessero gli attributi psicologici, fisici e caratteriali con cui il mondo aveva imparato a riconoscermi […], un secondo battesimo, palestra che Carabba frequenta su suggerimento dell’amico Roberto, dalle foto si affaccia l’ombra del Titanic, la nave tragicamente famosa cui i film numerosi e spettacolari non rendono merito: Immaginavo che quella storia suonasse nei miei occhi rapiti che la vedevano ricostruita con tante inesattezze al cinema come nelle orecchie dei primi uomini i versi che, accompagnati dalle vibrazioni delle corde di una lira, cantavano le vicende di Troia o degli Atridi.

Il poema etico del desiderio. E succede il nulla. L’incontro con il reale della lettera personale. Nel memoir incontri la classicità morbida e l’attualità brutale del pop: ma non un pregiudizio che favorisca o esalti l’una e denigri l’altra, o viceversa. Poi i luoghi: Viareggio, Roma, Firenze, Santa Maria di Leuca.

La storia di Carabba è solo sua, ma non è un romanzo, eppure persone e luoghi e voce narrante sono personaggi, maschere: vi leggo il racconto di un’anima come potrebbe esserlo La Nausea di Sartre, mi ricorda quella bruma lì, quel malinconico strato di polvere dell’angoscia. Rimandi, collegamenti, coincidenze: […] nel freddo di quel giorno di neve davanti alle porte automatiche del Regina Elena (che curiosamente si chiamava come la scuola elementare frequentata da mia madre, mio zio e da Davide […]).

Il dubbio creativo. Le coincidenze, che compulsano Carabba a dirsi, non possono essere casuali e la scrittura serve all’autore a riscriversi, inverarsi in una possibile verità che, essendo tale, non esiste, non può pronunciarsi. La verità insiste come l’aria per i parlanti o l’acqua nell’acquario per i pesci. La nonna, il padre, la madre e il dilemma del Carabba tifoso della Fiorentina allo stadio durante la partita della Roma. A ben vedere il tentennamento che nasce dalla scelta, da una decisione che annulla l’altra alternativa, il binario sul quale il treno lo conduce da Milano a Roma, è fonte non di depressa apatia o rabbiosa distruzione, ma di delicato, nostalgico percorso di riscatto. Il vuoto, passato che non torna, scelta non scelta, morte: al vuoto bisogna arrendersi come al cavo di una mano il pulcino che vi trova riparo. Contrasti, dunque, di cui siamo fatti e che possiamo annullare per poco, come il manto di neve che fa uniforme del tutto il tutto che, alle nostre latitudini climatiche, torna ben presto a sgelarsi nel frammento della città e della campagna industriale mediterranea.

Gioco di sfondo vago e precisa puntualità: […] la convinzione che l’azione dell’intelletto anticipi quella degli occhi intuendo ciò che stiamo per guardare ma ancora non abbiamo visto, opposti l’occhio e lo sguardo, l’occhio che vede la lettera e legge e lo sguardo interiore che segue le ossessioni che quella lettura tenta di cauterizzare, simile, però, a chi legge intanto rimugina su altro e così facendo non registra il senso delle parole che pure i suoi occhi stanno trasmettendo alla sua mente ed è costretto a ritornare sulle pagine che ha già voltato, così lasciavo che Mascia e la sua condizione occupassero il centro dei miei pensieri solo nominalmente […]

Il presente che non è mai solo adesso, ma strascico di passato e impulso futuro: azioni e coincidenze pratiche, che Carabba legge e tesse insieme. Nel libro non succede nulla di ‘romanzesco’, forse perché il tempo è epico e quel che succede è proprio il Nulla dell’esistenza in cui si è gettati, tutti, e tutte, ma che con cui non tutti e non tutte, hanno la briga di saperci fare come alcuni individui tipo Roberto, che, agli occhi di Carabba, incarnava la perfezione dell’umano, la naturalezza con cui, gettato nell’esistenza, si apriva, senza sforzo, alla vita.

Un nauseante nulla, una gettatezza esistenziale del quotidiano: costeggiando il lungo braccio sinistro dalla stazione Termini da cui si irradiavano i binari che da quando ero piccolo mi portavano via da Roma, attendevo che la colonna di automobili che mi bloccava riprendesse ad avanzare, i miei pensieri sempre più tetri e risentiti via via che il pub si avvicinava furono spazzati via da uno schianto dietro di me e da un improvviso dolore alla schiena. Mi ritrovai un metro più avanti e impiegai qualche secondo a capire che ero stato tamponato: il passato che non appassisce e resta a colpire non è un passato che ritorna, non è la fotocopia del trascorso esistenziale, è l’assoggettamento dell’avvenire alla stessa empasse che colpisce alle spalle, un tamponamento diventa la micro-narrazione di epoche e di stili, differenti dall’ora, che ritornano: e romanzo è immaginarsi il possibile accadimento di un quotidiano Leopold Bloom: che succede nelle pagine della Recherche? l’avevo persa di vista e ripensavo, dal treno a quel tempo della sua vita e di cui sapevo così poco: mi fa venire in mente Swann e la sua Odette), o nelle pagine dell’Ulisse di Joyce? Nella storia familiare e personale de, ancora, il Male Oscuro? Succede il Nulla, la Cosa: l’avventurosa storia del desiderio che rende romanzo ogni particolare, ogni parete, ogni umile rosa. L’incidente che parla in superficie, porta, l’inconscio. Il desiderio che affiora, sorge nell’inciampo.

Se non accade nulla, è perché il Nulla è sempre lì a farsi desiderare come un suicidio, o con il dono flebile del piacere della consolazione, che non si vuole accettare: Immediatamente mi scuotevo, comprendendo che l’azione della memoria, invece del dolore che solo mi pareva giusto desiderare, avrebbe finito per donarmi il piacere della consolazione che non volevo in alcun modo mi fosse concesso.

E gli oggetti? Potenziali germi di storie da riscrivere e immaginare: ricordo molti oggetti di un gusto strano che sembrava provenire da un’altra epoca, il lampadario in quarzo in mezzo al salone dove cenavamo la vigilia di Natale, il grattaschiena di mio nonno, una scultura in legno di medie dimensioni che tanto colpiva la mia fantasia e riproduceva un maresciallo dei carabinieri e forse proprio loro avevano regalato a mio nonno giudice, una collana di peperoncini essiccati che mi bruciarono la gola la volta che, infrangendo il divieto, ne assaggiai uno credendolo una piccola salsiccia, la dama di legno su cui mia nonna mi insegnò a giocare, il pianoforte a coda che rivelò il talento musicale di mio fratello e il mio esserne privo, e il grande hai letto con una testiera di metallo che mia nonna divideva con me le notti in cui ero lì […]

L’oggetto viene riconquistato a prezzo del lutto e della morte”, scrive Lacan nel Seminario VII. E in questa scrittura dell’inconscio, l’oggetto oscuro viene riconquistato soprattutto dal lettore o lettrice che ha confidenza con il proprio desiderio e con quel tipo di scrittura desiderante che affascina l’auscultazione interiore, lettore o lettrice che non ha attrazione solo per lo stordente bailamme di colpi di scena: comunque se vi piacciono solo e esclusivamente i thriller o i romanzi dove succede di tutto, ecco… è perché esiste il continuo movimento del desiderio, è perché siete degli esseri parlanti e… desideranti.

Il libro di Carabba è, a mio parere, il grado zero della scrittura desiderante il cui ritmo interiore è quello del futuro anteriore, il contrasto tra i ricordi felici e l’impossibilità che il futuro anteriore ne servisse di nuovi avrebbe messo in moto la catarsi che, dopo aver fuggito così a lungo il confronto, con tutte le forze cercavo da quando ero salito su quel treno, il tempo dell’inconscio.

Ha tante epidermidi Neve come tre livelli del suo, di Carabba, pensiero davanti al lutto.

Ha tante voci, sebbene una soltanto ne palesi tutte le altre in una coralità sottaciuta, mai urlata.

Ha tanti livelli di lettura, di versi, linearità che circola, che ci costringe a rileggere il prodigio di una scrittura complessa, calda e malinconica.

Ha tanto altro da scrivere Carabba, in un modo tutto singolare e mai narcisistico, e speriamo continui a farlo.

Buona lettura!

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