Antonella Lattanzi è nata a Bari nel 1979 e vive a Roma. È scrittrice e sceneggiatrice. Ha pubblicato i romanzi Devozione (Einaudi 2010 e 2023), Prima che tu mi tradisca (Einaudi 2013), Una storia nera (Mondadori 2017) e Questo giorno che incombe (HarperCollins Italia 2021), Cose che non si raccontano (Einaudi 2023). Per il cinema ha scritto, tra le altre, le sceneggiature di Fiore di Claudio Giovannesi, Il campione e Una storia nera (tratto dal suo romanzo omonimo) di Leonardo D’Agostini. Come autrice TV ha lavorato all’edizione 2015 di Le invasioni barbariche. Collabora con il «Corriere della Sera». È tradotta in diverse lingue.
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“Innanzitutto, complimenti per aver avuto il coraggio e la generosità di aver condiviso pubblicamente una storia così intima. Mi sono chiesta da subito cosa ti ha spinto a farlo.”
Io scrivo i miei libri per una necessità, non pensavo che avrei mai scritto un libro autobiografico, che avrei usato la prima persona. Mi sono sempre ispirata a storie vere di cronaca, perché mi piace raccontare il mondo. È come se ad un certo punto fossi stata io protagonista di una storia di cronaca e mi sembrava importantissimo raccontare un mondo che non è per niente conosciuto, raccontare che cos’è veramente la maternità. Nel corso della scrittura del libro, della storia che ho vissuto e delle presentazioni che ho fatto in questo anno e mezzo di vita di questo libro ho capito che ci sono cose che non si raccontano. Continuano a scrivermi donne e uomini che mi dicono grazie per aver dato voce alle cose che non si raccontano. Non avevo immaginato di fare questo ma sono felicissima.
Sicuramente ci sarà chi giudica negativamente la tua storia, le scelte, così intime e personali, che hai raccontato. Come vivi questo giudizio?
Mi è capitato l’altro giorno durante una presentazione che un uomo mi aggredisse verbalmente perché avevo detto che l’aborto era un diritto fondamentale che non va minimamente messo in discussione. Lui mi ha detto che l’Italia è degli italiani, che le donne devono essere consapevolizzate, che sono giusti i pro-vita nei consultori e che non bisogna abortire perché sennò arrivano gli extracomunitari e ci contaminano il colore della pelle.
Posso chiederti come ne sei uscita fuori da questa situazione?
Mi sono molto molto arrabbiata. Gli ho risposto che pensavo assolutamente il contrario di ciò che diceva lui. Poter vedere dal vivo una persona che ti dice delle cose del genere è una cosa veramente incredibile e quindi sono stata contenta di aver parlato in pubblico invece dell’importanza dell’aborto perché è importantissimo che queste persone vengano messe in difficoltà tanto da dover poi aggredire.
Nel libro hai parlato dei tuoi due aborti da giovane, l’impressione che ho avuto è che stessi in qualche modo colpevolizzandoti, nel senso che il destino non ti stesse dando un figlio oggi avendone rifiutati due in passato.
Volevo raccontare dei due aborti. Tante persone mi hanno detto: “di che ne hai fatto uno solo così il lettore ti vorrà più bene”. Invece io ho deciso di farlo in nome di tutte quelle donne che hanno sofferto, che sono morte, che si sono ammalate facendo un aborto illegale, in modo che non succeda più. È un diritto, non ci si deve giustificare. Abortire è una cosa che rimane dentro di te per sempre. E la società è falsamente pro questo diritto. Io ho pensato di non meritarmi di rimanere incinta proprio perché sono cresciuta in un tessuto culturale che è favorevole all’aborto solo in teoria. Le donne ti parlano dell’aborto, non dei loro aborti.
Tu hai sempre avuto un desiderio materno o è arrivato successivamente?
Io ho sempre avuto un desiderio materno ma non sono stata messa in grado dal mondo di farlo perché ci avevano promesso che eravamo una generazione di donne che avremmo potuto sposare la maternità e l’ambizione contemporaneamente, ma non è così. Se avessi voluto continuare a lavorare o ad essere ambiziosa nel mio lavoro come avrei potuto assecondare il mio desiderio di maternità? Io ho deciso di non avere bambini fino ad un certo punto proprio perché volevo fare la scrittrice e questa cosa non è giusta.
Nel libro scrivi che nella fase di procreazione assistita hai affrontato tutto da sola. Perché hai deciso di non condividere questa esperienza con le persone a te vicine, incluso il tuo compagno?
Un po’ questa cosa fa parte di come sono fatta io, tengo le mie cose per me. Anche perché, se poi non fosse successo nulla mi sarei in qualche modo sentita violata nella mia intimità. Inoltre, vivermi questa cosa da sola mi avrebbe permesso di continuare a lavorare, di non avere problemi con il libro che stavo scrivendo. Avevo paura che la mia casa editrice si sentisse tradita dal fatto che cercavo un figlio mentre scrivevo il libro. Sono tutte cose assurde da pensare ma è la società che te lo impone. E per quanto riguarda il mio compagno: è come se la gravidanza abbia a che fare solo con le donne.
Come un percorso del genere ha impattato sulla coppia?
Nessuno ci racconta come la procreazione assistita o qualsiasi percorso di fertilità diventa desiderio ossessivo, impatti sulla coppia. Quando incominci ad intraprendere un percorso di procreazione assistista ti parlano di punture, dosaggi ormonali, monitoraggi e nessuno ti dice che questa cosa può distruggere una coppia, ci vorrebbe almeno un sostegno psicologico.
Leggendo il libro si avverte molta rabbia, soprattutto quando si parla di ciò che è accaduto nelle cliniche: le modalità dei trattamenti, l’essere sistemata in un letto dopo un raschiamento vicino a donne che avevano partorito. Cosa vorresti denunciare rispetto a ciò che ti è successo?
La mia è stata una storia straordinaria che contiene in sé un po’ le storie di tutte le donne che hanno cercato e avuto un figlio: a tutte le donne è stata fatta della violenza ginecologica ed ostetrica. Tutte le donne in Italia che fanno un aborto in un ospedale pubblico vengono messe nello stesso reparto dove ci sono le donne che stanno per partorire. Inoltre ho incontrato nel mio percorso dottoresse che mi dicevano che mi ero meritata ciò che mi stava succedendo perché avevo fatto ricorso alla procreazione assistita, perché avevo abortito. Denunciare queste realtà è importantissimo: molti medici o psicologi o responsabili di centri di procreazione assistita mi hanno scritto per ringraziarmi dicendomi di aver capito grazie al libro cosa c’è oltre le terapie, che si ha a che fare con delle persone.
Mi chiedevo se continuare a parlare durante le presentazioni di ciò che ti è successo, ti ciò che hai sentito e hai provato, non significhi protrarre un dolore e continuare a riviverlo ogni volta.
Non mi fa piacere raccontare, è come rimanere bloccata, ma tanto non se ne esce mai. Non credo però che sia quello che uno vuole, uscirne. Ti rispondo con una scena del film “Pinocchio” di Guillermo del Toro. Geppetto perde un figlio prima di “dare alla luce” Pinocchio. Pinocchio vede il padre sempre triste e va dal Grillo Parlante chiedendogli se il padre fosse sempre triste perché non lo amava. Il Grillo Parlante gli dice che il padre lo ama tantissimo ma che porta con sé un grande fardello. Pinocchio gli chiede cosa fosse un fardello. Lui risponde che è qualcosa che ti fa soffrire ma che vuoi portare sempre con te.
Nel libro parli dell’importanza della scrittura nel superare il momento terribile che hai vissuto quando hai perso le bambine, cosa ha rappresentato per te scrivere in quella fase così dolorosa della tua vita?
La mia vita viaggiava su due binari, due desideri: la scrittura e la maternità. Una volta che ti succede quello che è successo a me pensi di aver perso tutto, di non poterti rialzare; allora ti aggrappi ad una motivazione come se fosse una mano che si aggrappa ad una roccia mentre il corpo penzola nel vuoto. Per me quella motivazione come sempre è stata la scrittura, cercare di fare qualcosa che avesse ancora un valore. Per me quello è stato scrivere.
C’è qualcosa che auguri a te in questo momento?
L’augurio che faccio sempre a me stessa e a tutti è di essere felice.
C’è qualcosa che ti senti di dire a chi sta vivendo una sofferenza così profonda come la tua?
Penso che raccontare sia molto importante, non chiudersi nel silenzio, nei sensi di colpa, nella solitudine. Non pensare sono la persona peggiore del mondo, sono l’unica persona che sta male al mondo. È importante anche alzare la voce, alzare la testa e raccontare le cose che non si raccontano.
Nancy Citro