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Cos'è la vita per me.

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Non aveva ancora trent’anni il Jack London che scrisse questo appassionato, tremendo, apocalittico e scioccante saggio. Scelse di chiudere così la raccolta di saggi Rivoluzione del 1910: un incontro tra ideali, visione razionale e sociale, desiderio per sé e per tutti di emancipazione. E dolore, molto dolore. London rimane unico perché lanciava sfide a carte scoperte. Aveva detto “trasformerò il giornalismo in letteratura”: e così aveva fatto conquistando il mondo con Il richiamo della foresta.
Erano poi arrivati gli scritti politici, nei quali egli stesso aveva bisogno di credere in qualcosa, e l’ultima cosa – come confesserà nel 1913 nella sua confessione capolavoro John Barleycorn. Memorie di un bevitore– sarebbe stato “il popolo”.
London è stato un uomo e un artista che si metteva continuamente alle corde, costringendosi a scrivere ciò che, nella sua immensa lucidità mai intrisa di cattiveria, sapeva descrivere senza risparmiare nulla. Neppure (a) se stesso.
 
 
 
COS’è LA VITA PER ME.
Sono nato proletario. Ho scoperto presto l’entusiasmo, l’ambizione e gli ideali e per poter ottenere queste cose esse sono diventate il problema di tutta la mia infanzia. Vengo da un ambiente rude, volgare, duro. Non avevo un orizzonte davanti a me: direi piuttosto un confine. Il mio posto in questa società era sul fondo, dove la vita offriva squallore e sventura alla carne e allo spirito.
Sopra di me troneggiava il colossale edificio della società e nella mia testa l’unica direzione era in salita. Dall’interno di questo edificio presi la decisione di arrampicarmi verso l’alto, dove gli uomini indossavano vestiti neri e camice inamidate e le donne erano vestite con abiti meravigliosi. Lassù c’erano cose da mangiare buone e in abbondanza. Questo per la carne. Poi c’era lo spirito. Sapevo che sopra di me stavano l’altruismo, il pensiero nobile e pulito, la sagace vita dell’intelletto. Lo sapevo perché avevo letto tanti romanzi alla biblioteca sul lungomare e in quei libri, ad eccezione dei cattivi e delle avventuriere, uomini e donne esprimevano pensieri bellissimi, parlavano un linguaggio meraviglioso e le loro gesta erano gloriose. In breve, ogni giorno accettavo l’alba e con essa l’idea che sopra di me c’era ogni bella cosa nobile e armoniosa, tutto ciò che rendeva dignitosa e decente una vita che valesse la pena di essere vissuta come giusta ricompensa per i travagli e le miserie.
Ma non é così semplice rampar fuori e lasciare il proletariato, specialmente se si é menomati da ideali e illusioni. Vivevo in un ranch della California per cui venni subito sbattuto davanti alla scala che avrei dovuto salire: era dura. Dentro di me la vita reclamava più di una magra esistenza tra stenti e rinunce. A dieci anni feci lo strillone per le strade di una grande città. Tutto quello che mi riguardava era sempre fatto di squallore e sventura: sopra di me c’era lo stesso paradiso in attesa di essere conquistato ma la scala da risalire era di un altro genere. Era la scala degli affari. Perché risparmiare e investire in bond dello stato visto che mi bastava comprare due giornali a cinque centesimi per rivenderli a dieci centesimi con un semplice movimento del polso, raddoppiando il capitale? La scala degli affari era la mia scala. Fu allora che la visione di me stesso nei panni di un principe del commercio.
Il titolo di “principe” me lo ero già guadagnato a sedici anni, mi era stato appioppato da una banda di tagliagole e ladri che mi chiamavano “Il principe dei pirati di ostriche.” Avevo salito il primo piolo della scala degli affari, ero un capitalista. Possedevo una barca e un perfetto completo da pirata di ostriche e  sfruttavo i miei simili: avevo un equipaggio composto da un marinaio. In qualità di capitano e di proprietario prendevo due terzi del bottino e ne lasciavo un terzo all’equipaggio, anche se l’equipaggio lavorava duro come il sottoscritto e come il sottoscritto rischiava vita e libertà.
Quest’unico piolo fu l’altezza massima che riuscii a salire nella scala degli affari. Una notte partii per un raid tra i pescatori cinesi. Non sbagliamoci, era una rapina: precisamente lo stesso spirito del capitalismo. Il capitalista prende le proprietà dei suoi simili magari servendosi di un rimborso, tradendo un fondo fiduciario, comprando senatori e giudici della corte suprema. La differenza è che io ero volgare: usavo il fucile.
Quella notte l’equipaggio dimostrò l’inefficienza contro la quale il capitalista ha l’abitudine di lanciare i suoi strali: simili inefficienze fanno lievitare le spese, riducendo i dividendi e il mio equipaggio ottenne entrambe le cose. Non ci furono dividendi quella notte e i pescatori cinesi furono più ricchi grazie alle reti e alle corde che non eravamo riusciti a rubare. Mi ritrovai in bancarotta, lasciai all’ancora la barca e partii per un raid lungo il fiume Sacramento. Ma mentre ero via, un’altra gang di pirati della baia fece una scorribanda e portò via qualsiasi cosa dalla mia barca. In seguito recuperai lo scafo alla deriva e lo rivendetti a venti dollari. Ero scivolato dall’unico piolo che avevo salito. Non ritentai più la scala degli affari.
Da lì in poi venni spietatamente sfruttato da altri capitalisti. Io avevo i muscoli e da questi muscoli loro spremevano denaro mentre io ricavavo un sostentamento insignificante. Fui marinaio, scaricatore di porto e manovale. Lavorai nei conservifici e nelle fabbriche, nelle lavanderie, a tagliar prati, pulire tappeti e lavare finestre: mai una volta che potessi godermi il frutto della mia fatica. Guardavo la figlia del proprietario del conservificio sulla carrozza e sapevo che quella carrozza era anche opera dei miei muscoli, che avevano contribuito a trascinarla in giro.  Ma non provavo risentimento: faceva parte del gioco, i forti erano loro. Ma bene: siccome io ero forte, decisi che mi sarei trovato a forza un posto accanto a loro. Il lavoro non mi spaventava, amavo il lavoro duro.
Un colpo fortunato mi fece trovare un datore di lavoro che la pensava allo stesso modo: io ero disposto a lavorare e lui era più che disposto a farmi lavorare. Credevo che avrei imparato un mestiere e invece scoprii che stavo sostituendo due uomini. Io credevo che lui avrebbe fatto di me un elettricista e invece lui, sfruttandomi, faceva cinquanta dollari al mese. Gli uomini che avevo sostituito prendevano quaranta dollari al mese e io facevo il lavoro di loro due per trenta dollari al mese.
Troppo lavoro mi fece venire la nausea. Decisi che non volevo più lavorare per tutta la vita e fuggii. Feci il vagabondo, elemosinando per gli Stati Uniti tra bassifondi e prigioni. Ero nato proletario e a diciotto anni ero in un punto ben più basso di quando ero partito. Ero nelle profondità sotterranee della miseria della quale non é bello parlare. Ero nella buca, nell’abisso, nel pozzo nero, nel mattatoio, nell’ossario della civiltà: la parte dell’edificio che la società sceglie di ignorare.
Dirò solamente che le cose viste laggiù mi hanno terribilmente spaventato: al punto da riflettere e riconoscere le crude verità della complicata civiltà nella quale vivevo. La vita era una questione di cibo e riparo, e per ottenere ciò gli uomini vendono le cose. Il mercante vende scarpe, il rappresentante del popolo, tranne rare eccezioni, vende fiducia: quasi tutti vendono onore. Era tutta merce, ogni persona comprata veniva rivenduta.
Ma c’era una differenza. Scarpe, fiducia e onore si rigenerano. Il muscolo no. Mentre il commerciante di scarpe vende le scarpe, intanto rifornisce il magazzino. Ma non c’é alcun modo di rinnovare il magazzino di muscoli: più il lavoratore vende muscoli meno ne restano a lui. I muscoli erano l’unica merce che possiede ma ogni giorno diminuisce e alla fine, se prima non muore, svende: una bancarotta muscolare e quindi non resta che tornare nelle cantine e perire miseramente.
Appresi così che anche il cervello é merce, diversa dal muscolo: a cinquanta o sessant’anni, un venditore di cervello é ancora agli inizi e i suoi articoli vengono pagati bene. A cinquant’anni un lavoratore è esaurito. Se non potevo vivere dove c’era il salotto della società, avrei provato almeno nel sottotetto. Certo la dieta era magra ma l’aria era pura: presi una decisione. Non avrei più venduto i muscoli. Avrei venduto il mio cervello.
A questo punto ebbe inizio una frenetica conquista della conoscenza. Equipaggiato per diventare mercante di cervella, fu inevitabile approfondire la sociologia. In questa materia trovai semplici concetti già elaborati da solo. Altre menti ben più grandi avevano elaborato tutto quello che avevo pensato, e anche molto di più. Fu così che scoprii di essere un socialista.
I socialisti erano rivoluzionari: lottavano per rovesciare la società del presente e partendo dal mondo materiale, per costruire la società del futuro. Anch’io ero un socialista e un rivoluzionario. Mi unii ai gruppi dei rivoluzionari proletari e intellettuali e per la prima volta ebbi a che fare con la cultura. Qui scoprii menti acute e brillanti dotate di qualità eccezionali, conobbi membri della classe lavoratrice forti, le cui menti erano pronte e le mani callose; c’erano anche predicatori spretati dal cristianesimo a causa delle loro vedute troppo ampie; professori spezzati dalla ruota della subordinazione universitaria alla classe dominante.
Qui trovai anche una calorosa fede nell’idealismo umano, conobbi la dolcezza e l’altruismo, la rinuncia e il martirio: tutte le splendide e penetranti cose dello spirito. Dove stavo adesso la vita era pulita, nobile, viva e riabilitata, e io ero felice di essere vivo. Ero entrato in contatto con anime grandi che esaltavano carne e spirito invece di dollari e centesimi. Erano anime per le quali il flebile lamento del figlio affamato dei bassifondi significava ben più della pompa e della circostanza legata all’espansione commerciale dell’impero mondo. Tutto attorno a me c’erano nobiltà di intenti, sforzi eroici e i giorni e le notti erano la luce del sole e delle stelle, tutto fuoco e rugiada: davanti ai miei occhi, sempre acceso e scintillante, stava il Sacro Graal, il Graal di Cristo, il calore umano da troppo tempo in sofferenza e maltrattato, che finalmente veniva soccorso e salvato. E io, povero stupido me, decisi che queste erano solo un piccolo assaggio delle gioie della vita che, una volta salito, avrei ritrovato nella società al piano superiore.
Come mercante di cervello fui un successo. La società mi aprì le sue porte. Entrai giusto al piano del salotto e la disillusione procedette a passo spedito. Andai a cena con i padroni della società, le mogli e le figlie dei padroni della società. Ammetto che le donne erano agghindate in maniera meravigliosa ma che ingenua sorpresa quando scoprii che erano fatte della stessa creta con la quale erano fatte tutte le donne che avevo conosciuto nelle cantine.
Ma non fu questo a scioccarmi, più che altro fu il loro materialismo. É vero, queste donne bellissime vestite in maniera sontuosa cinguettavano dolci ideali e piccole care scienze morali: ma per quanto cinguettassero la chiave dominante della loro vita era il materialismo. E poi sentimentalmente erano veramente egoiste! Si prestavano a tutte le belle iniziative di carità, non mancando mai di farlo sapere bene a tutti ma intanto il loro cibo e i loro vestiti erano frutto dei dividendi macchiati dal sangue del lavoro infantile, del sudatissimo lavoro e della prostituzione. Quando accennavo a fatti simili, nella mia innocenza mi aspettavo che queste sorelle di Judy O’Grady si sarebbero immediatamente strappate gioielli e vesti insanguinate. Invece loro si alteravano, si infuriavano e mi davano lezioni sulla mancanza di parsimonia, sul bere e sull’innata depravazione che provocavano l’attuale miseria nelle cantine della società.
Coi padroni non mi andava meglio. Mi ero aspettato di trovare uomini limpidi, nobili e vivi, di ideali altrettanto limpidi, nobili e vivi. Mi aggirai tra gli uomini seduti sui gradini più alti – predicatori, politici, uomini d’affari, professori, editori. Mangiai alla loro tavola, bevvi il loro vino e li studiai. É vero, ne trovai tanti che erano limpidi e nobili ma tranne rare eccezioni, non erano vivi. Quando non erano vivi di marciume, svelti nella vita sporca, erano solo morti insepolti, limpidi e nobili come le mummie conservate, ma non erano vivi.
Conobbi uomini che invocavano il nome del principe della pace nel corso delle diatribe contro la guerra e che intanto mettevano i fucili in mano ai Pinkerton per abbattere gli scioperanti nelle loro fabbriche. Conobbi uomini talmente indignati di fronte alla brutalità del pugilato da perdere il controllo e che intanto erano i primi ad adulterare il cibo che ogni anno uccideva più neonati di qualsiasi sanguinario Erode.
Parlai in grandi alberghi, club, case, pullman e piroscafi con diversi capitani d’industria meravigliato dal loro brevissimo viaggio nel regno dell’intelletto. Nel rovescio della medaglia scoprii che il loro intelletto era sviluppato in maniera abnorme in senso affaristico. Scoprii pure che quando si parlava di affari la loro moralità era azzerata.
Un editore mi diede del demagogo canaglia perché gli dissi che la sua economia politica era antiquata e la sua biologia la stessa di Plinio. Lo stesso editore pubblicava la pubblicità di medicinali brevettati ma non osava stampare la verità sugli stessi medicinali per paura di perdere la pubblicità.
Era ovunque la stessa cosa: crimine e tradimento, tradimento e crimine, uomini vivi ma niente affatto limpidi e nobili. Oppure uomini limpidi e nobili che però non erano vivi. Poi c’era una massa enorme e senza speranza né nobile né viva, che era semplicemente limpida. Non peccava deliberatamente o con mano sicura: peccava passivamente in maniera ignorante adeguandosi semplicemente all’immoralità corrente traendone un profitto. Fosse stata nobile e viva non sarebbe stata ignorante e si sarebbe rifiutata di spartirsi i dividendi del tradimento e del crimine.
Mi resi conto che non mi piaceva vivere sul piano dove c’era il salotto della società. Ero intellettualmente annoiato, moralmente e spiritualmente nauseato. Mi ricordai dei miei intellettuali e idealisti, i miei predicatori spretati, i professori squattrinati e i lavoratori dalla mente lucida con una coscienza di classe. Ricordai le notti e i giorni del sole e delle stelle dove la vita era meraviglia dolce e selvaggia, un paradiso spirituale di avventure generose e di idillio etico. E davanti a me vidi rifulgere nuovamente infuocato il Sacro Graal.
Così tornai alla classe lavoratrice nella quale ero nato e alla quale appartenevo. Non mi interessava più risalire. L’edificio della società che incombeva sul capo non conteneva alcuna gioia per me. Sono le fondamenta dell’edificio che mi interessano. Poiché lì sono contento di lavorare, palanchino in mano, a fianco di intellettuali, idealisti e lavoratori con una coscienza di classe, per usare ogni tanto un bel piede di porco con cui far traballare tutto l’edificio. Un giorno, quando avremo più braccia e palanchini per lavorarci bene l’edificio, lo capovolgeremo e con esso rovesceremo tutti quei morti insepolti, la vita marcia, il mostruoso egoismo e l’ottuso materialismo. Dopodiché, ripuliremo la cantina e costruiremo una nuova abitazione per l’umanità nella quale non ci saranno piani con un salotto e dove le stanze saranno tutte luminose e arieggiate e l’aria limpida, nobile e viva.
Questo é il mio orizzonte: attendo con ansia il tempo in cui l’uomo compirà un progresso verso qualcosa che valga e che sia più importante dello stomaco, il tempo in cui l’uomo sarà spinto all’azione da un incentivo migliore di quello odierno, lo stomaco. Continuo a credere nella nobiltà e nell’eccellenza. Credo che la dolcezza spirituale e la generosità conquisteranno la volgare golosità odierna. Infine, la fede nella classe lavoratrice. Come disse un francese, “la scala del tempo riecheggia sempre il suono dello zoccolo che sale e dello stivale lucido che scende.”
 
Questo inedito è apparso su Satisfiction n. 1 nel  novembre 2007 curato e tradotto da Davide Sapienza.

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