Quodlibet ha portato in libreria Corpomatto il romanzo d’esordio di Cristina Venneri. Romanzo di formazione e di deformazione di Marta, eterna figlia originaria di Taranto e studentessa universitaria a Messina, città dello stretto e luogo di fuga. Nel flusso narrativo si susseguono il suo allontanarsi e avvicinarsi alla famiglia d’origine e all’idea di una coppia che manda in frantumi una vita. Una madre problematica, un padre professore, romantico e prevaricatore, una nonna arcigna che “appoggiata al carrellino si aggirava per le stanze della casa controllando che tutto fosse disposto secondo l’ordine del giorno fino a arrendersi al destino di immobilità sul divano del salotto in attesa dell’ora di pranzo”. Marta cerca, nei lunghi periodi “senza virgola”, uno spazio vitale oltre la memoria, un’identità economica, sentimentale oltre la precarietà.
Voce letteraria, quella di Cristina Veneri, che sa tradurre il pensiero alla pagina, trascinando il lettore, di pensiero in pensiero, di espediente in espediente, nella difficoltà generazionale ed individuale della protagonista a farsi carico della dimensione dell’altro con venature talmente spietate da rivelarsi incredibilmente ironiche.
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Il primo giorno che mi recai a lezione scoprii che la facoltà di Lettere e Filosofia che fino a quel momento avevo visto solo in foto sul sito internet dell’Università si trovava fuori dal centro abitato, in cima al viale Annunziata, scelta che da parte dell’amministrazione comunale mi parve alquanto assurda nel decidere di piantare la propria facoltà di Lettere su un pizzo di montagna o forse invece, come poi ebbi modo di pensare naturalizzandomi, astuta nel tentativo di preservarla dal fantasma del 1908 e a ogni modo per raggiungerla da casa mia bisognava prendere prima il tram – il cui percorso costeggiava lo Stretto e quindi non era poi tanto male avere come panorama quotidiano quello che la Madonna della Lettera tutta dorata proteggeva con i caratteri cubitali VOS ET IPSAM CIVITATEM BENEDICIMUS – e poi, giunti al capolinea, un autobus a capienza ridotta rispetto al numero di studenti accalcati in attesa che in ultimo si sarebbe arrampicato su per il viale Annunziata fino in cima alla collina su cui come una torta nuziale si ergeva il palazzotto ottagonale in acciaio e vetro di Lettere e Filosofia.
Ignara di quel tragitto – che a questo punto corrispondeva più all’idea di mio padre di farmi fare da pendolare che al mio sconclusionato piano di trasferirmi nella città stessa in cui avrei studiato – il primo giorno di lezione arrivai con un’imbarazzante ritardo saltando tutta la parte delle presentazioni. Buon inizio! pensai davanti alla porta dell’aula che conteneva meno alunni della mia classe del liceo indecisa se entrare presentandomi fin da subito come la ritardataria del corso ovvero fare marcia indietro e esplorare la Facoltà che non avevo ancora visitato, scelta che predilessi al fine di evitarmi quell’imbarazzo pensando che non mi sarei persa granché saltando le presentazioni – in fondo può capitare a tutti un imprevisto anche il primo giorno di lezioni altrimenti che imprevisto sarebbe se non creasse un impedimento e anche se partivo svantaggiata da questa prima assenza mi sarei certo rifatta dimostrando la mia passione per la classicità – cosicché pure un po’ desolata ma forte del mio anonimato me ne andai a perlustrare i corridoi dell’edificio e infine sedendo sulla scalinata esterna sovrastata dall’insegna Lettere e Filosofia laccata in oro sulla facciata dall’intonaco scrostato mi emozionai all’idea che in ogni caso andavo all’Università. Finalmente potevo avere una mia camera oltre che una mia vita da gestire come mi pareva nel nuovo appartamento che per ventura si trovava in Viale della Libertà, in cui una camera singola mi sarebbe costata duecento euro al mese spese incluse senza contratto di locazione al primo piano con vista sulla Calabria, da condividere con una studentessa che lo abitava già da due anni e quell’anno si sarebbe impeccabilmente laureata in Scienze della formazione mentre io mi ero iscritta a Lettere classiche per cui mi sentivo superiore a prescindere da come sarebbero andati i miei studi. Si coglieva facilmente la differenza tra me e lei, almeno a me era palese, poiché lei era una ragazza calabrese di quelle che il fine settimana tornano a casa dai genitori e dopo la laurea idem mentre io da quel momento in avanti non avevo nessuna intenzione di tornare a casa se non per le Sante festività, cosa che mi avrebbe fatto sentire adulta e non più solo una figlia bensì una persona con i suoi impegni a cui pensare e questo certo era vero solo in parte considerato che l’affitto l’avrebbe pagato mia madre e con i soldi di mio padre aggiungo visto che lui ci aveva tenuto a precisarlo quando me l’ero inimicato con questa faccenda e in ogni caso questi duecento euro al mese sarebbero andati a finire nelle casse della proprietaria dell’appartamento che abitava al nord e non si sapeva neanche che aspetto avesse ma per telefono era stata chiara che quei soldi li avrebbe voluti versati sul suo conto tramite bonifico bancario.
Impegnandomi piuttosto a costruire una rete di rapporti sociali che mi avrebbe accompagnata per tutta la durata degli studi e magari anche oltre visto che amici storici non è che ne avessi, a parte un paio o tre al massimo, in breve tempo mi affiancai a una compagnia di coetanei dei quali nessuno andava all’Università: erano per lo più ragazzi che tentavano la carriera musicale pur senza degnamente studiare in un conservatorio o un’accademia, i quali di certo non conducevano la vita degli studenti che si limitano a fare festini il fine settimana nelle case pagate dai genitori e però durante il giorno un minimo studiano e frequentano le lezioni, più che altro terminate le prove o le registrazioni passavano le nottate nei locali del centro a ascoltare la musica dei loro colleghi più anziani. La sera in cui li avevo conosciuti stazionavo in solitaria al bancone del Catalani jazz café pochi metri sopra il livello dell’originaria città e poiché mi trovavo lì presentemente per quel motivo mi ero fatta abbordare con una stretta di mano da uno che di questa compagnia faceva parte, il quale era arruolato a fare la ronda per locali in cerca di ragazze da inserire nella comitiva per il ripopolamento periodico della componente femminile che sempre andava esaurendosi per via di fidanzamenti o fughe, per cui questo ragazzo che essendo mezzo greco per ramo materno aveva subito rapito la mia attenzione mi aveva invitata a nozze proponendomi di seguirlo in uno storico locale sotterraneo ormai in declino in cui avevano luogo jam session di basso livello superato un certo tasso alcolemico, dove in un improvvisato karaoke rock mi lanciai dopo aver bevuto qualche Negroni pensando Finalmente si vive! rallegrandomi per l’obiettivo raggiunto in quella serata invece di preoccuparmi per la situazione universitaria che nonostante fosse iniziata solo da qualche mese già si prospettava come un ritardo che avrebbe continuato a accumularsi in ogni istante allo stesso modo dei ritardi dei treni.