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Cronaca di una morte annunciata. I primi giorni di Mostra del Cinema di Venezia

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Non sono sicura se la morte di cui parlo nel titolo sia la mia, quella del cinema o semplicemente quella della mostra, che dopo undici giorni di intensa attività (dai sedici iniziali della prima edizione nel 1932 di cui quest’anno si celebra l’anniversario novantennale 1932-2022) sta per cessare di esistere, almeno come cittadella del cinema con i suoi quattro bar interni più un bar lounge e tre bar lagunari, un ristorante vista mare, una sala stampa, una sala conferenze, otto sale di proiezione ufficiali al Lido più un circuito cinema per il pubblico a Venezia e pillole di sale collaterali come la bellissima Sala Laguna che ospita le proiezioni speciali della sezione autonoma delle Giornate degli Autori eccetera eccetera, parti dei quali (quasi tutti i bar) allestiti su strutture mobili… su uno spazio di non più di tre chilometri quadrati, ma sapendo che la morte nel cinema è sempre qualcosa di effimero non me ne preoccupo più di tanto.

L’edizione di quest’anno si conferma, per tradizione, votata alla diplomazia, con un’ampia selezione di opere di provenienza ucraina, così come da altre zone di guerra, e una rediviva sezione Venezia Classici Restauri con una meravigliosa selezione di grandi opere della storia del cinema a partire da un capolavoro del cinema del muto, nella serata di anteprima: “Stella Dallas” di Henry King (1925) con accompagnamento musicale dal vivo, fino a una fornita sezione sovietica, con i capolavori impossibiliUcho – L’orecchio”, di Karel Kachińa (1969) – di cui era impedita la visione in Urss e che è tornato “visibile” solo dal 1989 – e Bratan – Fratello” di Bakthyar Khudoynazarov (1991) e taiwanese con “Uli Shidan (A Confucian Confusion)” di Edward Yang (1994) originariamente presentato nella rivale cornice del festival di Cannes.

Non mi pare ci siano stati film di guerra intesa come azione militare, per quanto ci sia un film di guerriglia – com’era capitato l’anno scorso con il toccante “Nosorih – Rinoceronte” di Oleh Sentsov – come “Goliath” di Adilkhan Yerzhanov – che ha vinto il premio degli spettatori Armani Beauty della sezione Orizzonti Extra, entrambe (2021 e 2022) produzioni e regia ucraine, anche se il periodo ritratto è differente: per “Rhino” erano gli anni novanta del Novecento, in “Goliath” siamo ai giorni nostri.

La mia menzione speciale ai film che trattano degli effetti della guerra sui civili va al dovutamente ironico (nel senso di ironia come obbligata e mascherata delicatezza) “Nezouh” della giovane regista arabo siriana Soudane Kadaan – nella sezione Orizzonti Extra – in cui una famiglia – giovane coppia con figlia preadolescente dal padre di famiglia arabicamente forte (ma buono, come i giganti…) non vuole accettare che il perfetto appartamento dove vivevano sia stato divelto, come tutto il suo quartiere, dalle bombe fatte cadere da una guerra civile che prosegue ininterrottamente dal 2011, undici anni. A Damasco. Bombe improvvise e leggere che esplodono sbuffando polvere. Appende delle lenzuola a fiori sulle voragini aperte nelle pareti perimetrali della casa, anche se non riesce a coprire l’enorme foro a cerchio del soffitto così che la casa avrà un costante collegamento col cielo (e con le rare piogge) nello stile inaugurato da Mantegna. Per la società a forte traino maschile araba, l’impossibilità di un padre di famiglia di risolvere i problemi del suo nido è forse peggio della morte stessa, e la regista, giovane ma attiva fin dal 2008, e anche sceneggiatrice Kadaan, mostra questo conflitto con una delicatezza e un occhio filmico rilevanti.

Menzione speciale anche agli interpreti, su cui regge tutto il peso piuma del dramma: i bravissimi Samir Almasri (il padre marito) Kinda Alloush (la madre moglie) e gli esordienti e talentuosissimi Hala Zein (la figlia) con fidanzatino/vicino di casa Nizar Alani.

Non sarà facile recuperare questi titoli nelle sale italiane, forse si potrà trovare qualcosa in streaming e in altri festival nazionali ed esteri.

Il giorno uno si inaugura con un importante film in concorso, il quale pur mancando di film ad altissimo budget contiene parecchi big e

Ph. Saverio Corti

soprattutto alcune scoperte: il primo film del primo mattino è stato così “White Noise” di Noah Baumbach dal romanzo fondativo per il genere post-moderno e la feroce critica della letteratura made in Usa alla rapidissima accumulazione di (non) senso sulle cicatrici della società occidentale, un evocativo e mortifero “White Noise”, appunto, dello statunitense Don DeLillo.

Baumbach non raggiunge la stratificazione di senso di DeLillo ma è certosino, infaticabile, quasi breathless, nel tentare di eguagliarlo, tanto che con i titoli di coda, una coreografia di danza collettiva ripresa dall’alto in un coloratissimo e lisergico supermarket – quasi ce la fa. Gli attori protagonisti si mischiano ai ballerini in questa coreografia lenta, leggera, stupida, modernissima, di cittadini modello, quindi altamente disfunzionali, paranoici, potenzialmente criminali, lavoratori middle-west bianchi. Capofamiglia, in questo caso, è Adam Driver, che sta attraversando e facendo attraversare ai suoi film un discreto stato di grazia, figli e figlie e moglie sono gli altrettanto disadattati e simpaticissimi (quindi inseritissimi), Greta Gerwig, Raffey Cassidy, May Nivola, Sam Nivola, e bimbo.

Premessa del film: Driver/il Professor Jack Gladney è il più grande esperto di storia della Germania e studi su Hitler degli Usa senza neppure sapere il tedesco. Una nube tossica si avvicina, aleggiante, alla sua (anonima e già soffocata) città.

In uscita in sala e su Netflix.

La mattina prosegue con il film d’apertura della sezione Orizzonti, l’italiano “Princess” del fotografo, produttore, sceneggiatore e regista Roberto De Paolis, alla sua seconda incursione nella fiction dopo “Cuori puri” (2017) presentato alla Quinzaine des Réalizateurs di Cannes. Un film piccolo, girato dopo mesi di riprese nel bosco che taglia la strada provinciale che conduce al lido di Ostia, dove giovani ragazze, spesso di origine nigeriana, hanno ricavato una seconda e scomoda, precaria casa tra le frasche, i preservativi usati e i clienti che vanno e vengono dalla mattina alla notte.

A metà tra il documentario e la fiction, con veri clienti e attrici/attori non professionist*, “Princess” vuole indagare il problema della tratta della prostituzione tra Nigeria e Italia e la comunità di persone che la vive.

Per Princess, interpretata dalla bravissima esordiente Glory Kevin (speriamo con un futuro spianato nel mondo del cinema) quel che fanno lei e le sue amiche è “lavorare in strada” e sono inserite nella loro comunità di migranti d’origine nigeriana (per altro molto religiosa) come persone “normali”, non ostracizzate per via di un lavoro suppostamente colpevolizzante. Costrette a ripagare un debito contratto nel paese natale con una protettrice, passano la giornata a ridere e scherzare mentre i clienti le attraversano (fisicamente) senza che ci facciano caso: mentre “lavora” Princess guarda il cellulare – “è tutto il tuo mondo” le dirà il primo (non) cliente anomalo, uno dei pochissimi attori di professione Lino Musella. Princess dice che ha scambiato il corpo con una ragazza in Nigeria – per un incantesimo fatto da una maga – e il suo corpo presente non sente nulla. Sentirà l’amore, però, e in questo modo si riapproprierà delle sue (tristi) emozioni.

Decisamente consigliato, uscirà in sala distribuito da Lucky Red.

Terza apertura: per la sezione Settimana della Critica organizzata dal Sindacato Critici Cinematografici Italiani il cortometraggio “Pinned Into a Dress” di Gianluca Matarrese e Guillaume Thomas e “Trois Nuits Par Semaine”, lungometraggio di Florent Gouëlou; tre filmaker giovani e promettenti, con la punta di diamante Matarrese che torna alla Settimana della Critica con una perla di maestria visiva sulla vita e gli abiti dell’icona drag Miss Fame (Kurtis Dam-Mikkelsen).

L’equazione che vuole il mondo del fashion come effimero e vuoto viene indagato e sconvolto dall’occhio prensile di Matarrese che sembra montare/indossare – come suggerisce il titolo – e farti montare/indossare, per quindici lunghissimi estatici minuti lo sguardo e gli abiti e i trucchi estremi di un’opera d’arte vivente.

Segue Miss Fame dietro, davanti, dentro e di fianco i foto obiettivi che la ritraggono sulle riviste di moda più lette del mondo, e gli abiti si esplorano – mettono e tolgono – i trucchi si spalmano e si lavano via, mentre Fame racconta in un flusso continuo dilatato dal tappeto sonoro, tutti i suoi segreti più intimi.

Rompere il confine tra superficialità, lusso, autenticità, privato, pubblico, maschile e femminile come femminilità e mascolinità e così indagare il senso dell’arte e del bello è l’ossessione personale del regista, che prosegue di opera in opera.

Consigliati tutti i suoi lungometraggi precedenti: “Fashion Babylon” (2021), La dernière seance (presentato l’anno scorso, 2021), “Fuori tutto” (2019), “Mon Basier du Cinema” (2014), e l’ultimissimo “Il posto” (2022) sul precariato ospedaliero.

Trois Nuits par Semaine” è invece una storia d’amore drag capitata per caso in una piazza di Parigi umida e notturna dove un truck di volontari assiste trans e barboni con medicine, bevande calde, condom, sorrisi, parole, baci. Si incontrano Baptiste e Cookie Kunty, o almeno Cookie “trois nuits par semaine,” tre notti a settimana, perché nel resto del tempo è Quentin. Baptiste avrebbe però una fidanzata… Anche il regista, Florent Gouëlou, è una drag queen, qualche notte a settimana, e questa è in parte la sua vita. Una storia d’amore naive, quasi infantile, quasi trasparente, nonostante le imbottiture voluminose di Quentin e le sue colorate parrucche. Struggenti gli attimi in cui Baptiste cerca tra le imbottiture le curve di una donna per poi innamorarsi di un corpo da uomo e ignorarne o capirne l’a-differenza.

Uscirà in sala in Francia, occorre trasmigrare.

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Piaceri e dispiaceri – Pillole di mostra del cinema di Venezia79

Tàr di Todd Fields – in concorso

In questi giorni il settimanale tedesco Der Spiegel ha pubblicato una lunga inchiesta che coinvolge il regista austriaco Ulrich Seidl in uno scandalo per maltrattamenti e comportamento non etico su un set durante la lavorazione del suo ultimo film “Sparta”, girato in Romania con giovanissimi attori (7-16 anni) non professionisti a quanto pare non sufficientemente edotti (o preparati psicologicamente) per le scene di abuso che avrebbero dovuto interpretare.

Nell’estetica del regista, che nega le accuse, sono proprio le dinamiche di potere… di sfruttamento e sottomissione a essere maggiormente esplorate, spesso con uno stile crudo che confina con il realismo documentale, o l’iper-realismo visionario. Questo iper-realismo visionario (o questo realismo documentale), al di là delle similitudini tra la figura di Seidl e quella della spietata direttrice di orchestra Lydia Tàr, che porterà alla morte una sua allieva/amante – Tàr interpretata da una Cate Blanchett in stato di (dis)grazia, vincitrice di una meritatissima Coppa Volpi come migliore interprete femminile – è proprio lo stesso che utilizza Todd Fields per selezionare le musiche del suo film.

Penso sia la la prima volta in vita mia in cui entro in una sala gremita per vedere un blockbuster e mi trovo una colonna sonora suonata costantemente da un’orchestra visibile che emette strepiti, stridori, che fa urlare e ferisce gli strumenti, in special modo gli archi, come la viola. Non una colonna sonora ma una musica: dodecafonica, dissonante, ostile, magnificamente difficile e “brutta”… Bela Bartok diretto benissimo da Lydia Tàr. E sono piuttosto deformi i primissimi piani della Blanchett su questi sfondi perennemente monocromi come se il film fosse un continuum di dipinti di Kasimir Malevich, o di qualche suo prosecutore post-moderno meno nero e più marron, coevo della Tàr e della sua amante, la docile ma ferina Nina Hoss, cittadinanza tedesca. Perché il film è girato interamente a Berlino dove questa figura inventata ma credibile di direttrice d’orchestra lavora.

Il film ha ricevuto critiche ed è un peccato che non ci si sia soffermati sulla qualità musicale piuttosto unica dell’opera che si inserisce in un filone nuovo e spero fertile dove si sposa un’idea più evoluta di rapporto suono e immagine e di sincretismo tra le arti, in special modo l’arte astratta e concettuale e la musica del novecento, con un occhio storico e pedagogico insieme. La Blanchett dirige veramente l’orchestra durante le scene (tante) di concerto o prove.

Vivacemente (o veracemente) consigliato.

Un couple di Frederick Wiseman – in concorso

L’incomunicabilità dell’amore secondo Wiseman.

Il celebre documentarista si cimenta per la seconda volta con la fiction – dopo “La dernière lettre” del 2002, di nuovo un film fiume su un rapporto a distanza e scritto, mediato – mettendo in scena un’opera per attrice sola, in francese, tratta dai diari intimi (e strazianti) di Sofia Tolstoj, moglie dello scrittore Lev Nikolaevich Tolstoj.

Impersonata da Nathalie Boutefeu, che incessantemente in scena gli parla come se fosse presente – ma il marito non si vedrà né parlerà (o ascolterà) mai – il film costruisce il suo crescendo di tragedia mano a mano che si amplifica la complessità e la portata di questo sentimento unilaterale e inascoltato, che non riesce neppure a gioire della bellezza in mezzo a cui viene espresso, un giardino in fiore sull’isola di Belle Île nel golfo bretone di Morbihan: Belle Île, l’isola di Sarah Bernhardt e di Jacques Prévert che in occasione della rivolta della sua colonia penale nel 1934 le dedicherà una poesia e vi ambienterà un film rimasto incompiuto che sarebbe dovuto esser girato dall’immancabile sodale Marcel Carné.

Eppure le parole sono dolci, calme e profonde, una serena disperazione: un tuffo in un modo di narrare – e di pensare e pensarsi – che sembra lontano molto più dei suoi centotrent’anni da noi.

Uno dei film più belli del festival, “Au-dessus de l’île on voit des oiseaux / Tout autour de l’île il y a de l’eau.

Bones and All di Luca Guadagnino – in concorso

Il film di Luca Guadagnino si aggiudica due premi importanti: il premio Marcello Mastroianni per l’interprete femminile – alla bellissima e bravissima Taylor Russell – e il Leone d’Argento per la Miglior Regia, oltre a qualche fischio in sala alla fine della prima proiezione-stampa (fischi di approvazione o di sdegno?), ma si sa che il peggio che possa capitare a un vero artista è di essere (apparentemente) amato e compreso da tutt*.

[*Il rischio in questi casi è la morte; per suicidio, come ci insegna Marilyn – presente come ghost alla mostra tramite il biopic “Blonde” dell’australiano Andrew Dominik, o magari per omicidio, come ci insegnano tant* altr*.]

Anche Guadagnino imbastisce il suo film o vascello fantasma a partire dal fascino dei suoi protagonisti: la dolce e controllata Russell, che non vuole cedere all’istinto che la chiede cannibale di corpi e di cuori, e Timothé Chalamet, un attore a cui il regista ha chiaramente rubato l’anima tanto riesce a fargliela scuotere sulla scena.

Maren (Russell) (re)incontra Lee (Chalamet) mentre viaggia in Greyhound per gli Stati Uniti rurali delle province del Mid-West: esce da una casa a torso nudo e sporco di sangue perché si è appena mangiato (bones and all?) un ragazzo per fame. Lei che pensava di non avere simili… Lo segue, si mettono a viaggiare insieme sul pick up rubato appartenuto al morto, con un’intensità come se ci fosse una ragione superiore che li vuole in quel momento insieme lì.

Bones and All” è un film allucinato, ispirato, estremo, e sfiora o meglio sfora il ridicolo nel voler affermare l’assoluto del sentimento sulla ragione e del desiderio contro la vita e oltre la morte.

Piace agli adolescenti, ed è un piacere vedere questi corpi non omologati, come quello sottile e traslucido, nervoso, tossico, intossicato e intossicante di Chalamet, contorcersi come un serpente, sembrano tornati i giorni in cui sui palchi non c’erano strani e compassati influencer ma semi-dei come il re lucertola dei The Doors.

E Guadagnino non ha paura di centrifugare i miti pop: se ne appropria senza esserne soggiogato, dalle musiche – su tutte l’ossessionante “Atmosphere” dei Joy Division – che diventano “film” e non “del film” agli stili di altri grandi autori americani” – Wenders, Lynch o artisti come Kern, o il decaduto Terry Richardson – che diventano parte e specchio della sua estetica.

Mi devo ricredere su un autore che non avevo compreso e che ha invece la forza e l’oscenità di fare mito come non si credeva più possibile fuori dalla fantascienza e dai super-hero.

Voto: alto

The Eternal Daughter di Joanna Hogg in concorso

Un racconto gotico per immagini che fa da cornice e rende magico, piuttosto che pauroso, il dolore della perdita e della malattia, non per niente Joanna Hogg ha scelto per interpretarlo l’attrice più aliena e indefinibile del cinema britannico, se non mondiale, Tilda Swinton.

La Hogg scrive e riprende le emozioni di un luogo – un antico maniero gallese trasformato in albergo, immerso nelle nebbie della brughiera, deserto, circondato – ma sarebbe meglio dire avvolto – da un parco che sembra non possa né fiorire né sfiorire – per parlare del dolore di una figlia in dialogo con la madre morente, dove ogni parola conta perché potrebbe essere l’ultima, conta ogni sfiorarsi, guardarsi, sorridersi.

I tempi sono lenti, o forse stanchi, la luce confusa del tramonto dura di più che in un tramonto reale, pur se gallese.

Tilda Swinton è sia Julie, la figlia, che Rosalinde, la madre, che infatti non vediamo mai riprese insieme. Julie è la stessa Julie del film precedente della Hogg, il torbido dramma The Souvenir (I e II – 2019 e 2021) interpretato proprio dalla figlia della Swinton, Honor Swinton Byrne?

Un film che lascia dubbi, che sembra sempre parlare di qualcosa di (più) personale, infatti la regista e sceneggiatrice Hogg lo ha immaginato a partire dal rapporto con la madre, in un progetto durato l’arco di quattordici anni.

Concedersi un pianto è l’acme massimo raggiunto.

Consigliato

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