Il lungo viaggio che riporta Curzio Malaparte dalle rive quiete della redenzione alla nuova, definitiva maledizione tra i miasmi della “peste” di Napoli comincia dieci anni prima de “La pelle”, sempre a Napoli. È la storia di una nave che salpa a mezzanotte, del Vesuvio che la guarda sull’uscio della sua casa vicino al mare, fumando una pipa di terracotta come un vecchio marinaio; di ragazze more che salutano dai davanzali, i seni poggiati tra i gerani e il rosmarino; di ragazzi ardenti che vanno a far fiorire l’Africa. Malaparte si trova a bordo di quella nave, diretto verso le terre dell’Impero per scrivere un reportage giornalistico e cantare l’epopea di un nuovo colonialismo, del suo ‘volto umano’ e del suo ‘slancio etico’, con toni d’incanto e di celebrazione. Esordisce proprio a Napoli: che non è Napoli, però, ma il fondo sgargiante e vagamente anonimo di una cartolina che poco ha a che fare con la cronaca e quasi tutto con l’elegia, con lo scenario artefatto di un apologo morale. Il Malaparte che nel 1939 salpa verso l’Africa Orientale Italiana sta vivendo almeno la sua terza vita: fascista ‘movimentista’ agli albori del regime, messo al confino per un evidente difetto di ortodossia (apparso già nel libro “Tecnica del colpo di Stato” e aggravatosi negli anni della direzione della Stampa), si ritrova ora riabilitato con riserva (continua ad essere fieramente anti-hitleriano e ha violato le leggi razziali assumendo Moravia e Saba, di origini ebraiche, nella rivista “Prospettive”, che dirige) e viene spedito a dar prova di fedeltà parlando dell’Impero con accenti trionfalistici. Si confida, evidentemente, nella naturale propensione all’avventura dello scrittore, nel suo spirito ‘pionieristico’ che si infiamma di fronte al nuovo, al diverso, al difficile; e la missione di Malaparte ha in effetti, sulle prime, tutta l’aria di riuscire. È un idillio l’immagine dei ‘coloni’ che vanno ad occupare le terre d’Africa e sul ponte della nave rifanno la piazzetta di un qualunque paese italiano, con gli uomini che parlano di innesti e sementi o giocano a carte e le donne che cuciono o rammendano o “ravviano i loro ragazzi”. Tutti si portano l’Italia nel cuore e vanno a rifarla a sud del tropico; tutti, al tempo stesso, hanno coscienza del compito “più alto, più nobile” che li attende. Non dovranno costituire l’ennesima colonia, ma il primo nucleo di un “Impero bianco” (inteso non in senso razziale ma morale) che espanda sul mondo la ‘luce’ della civiltà europea – italiana, innanzitutto – e nel contempo realizzi un nuovo esperimento di commistione umana, di società sovranazionale. Gli artefici di questa impresa non sono i gerarchi, i borghesi: è piuttosto il popolo, che genuinamente incarna i valori profondi – lo zelo, il coraggio, l’ottimismo, la lena carica di consapevolezze e ideali – della ‘civiltà della luce’. L’Etiopia è, dal punto di vista di Malaparte, il luogo ideale dell’esperimento: un “paese bianco”, che “non fa parte dell’Africa tenebrosa di Livingstone, di Stanley e, neanche, di Cecchi, di Bottego o di Padre Massaia”; non un paese “senza storia”, immobile dai tempi di Erodoto o degli autori della mappa di Hereford, ma una terra che ha avuto rapporti più o meno stretti con i paesi del Mediterraneo, con Bisanzio, Gerusalemme, l’Arabia, e poggia il piede “sullo stesso substrato storico, sociale e morale, sul quale è fondata la civiltà cristiana d’Europa”. Il fervore di Malaparte, il suo entusiasmo per ‘l’idea’, lo porta – in uno stato d’animo vero a metà – a esaltare ovunque le conquiste del regime. L’Asmara, capitale dell’Eritrea, è un mosaico di strade ampie, dritte, percorse da automobili lussuose, di palazzi di cemento e vetro, di “viali fiancheggiati di case candide, dalle linee pure”. Un centro moderno, insomma, sorto in soli quattro anni dal giorno dell’invasione italiana dell’Etiopia, sulle scarne fondamenta di una piccola – graziosa ma anonima – città di provincia. Poco lontano, Decameré – “fino a tre anni orsono emporio provvisorio di baracche, caotico ammasso di autorimesse, di officine, di depositi” – si è trasformata in una “città modernissima di vetro e cemento, che regola il suo traffico tumultuoso in ampie strade di geometrico disegno e profila nell’aria tersa le torri dei suoi silos e le sue ciminiere fumanti”. Il “destino” della città prende forma: “grande centro votato a raccogliere, a industrializzare e a smistare i prodotti dell’altopiano etiopico”. Lo stesso fervore che guida Malaparte a celebrare lo sforzo generoso degli italiani ‘fecondatori’, lo spinge pure a cercare un contatto più diretto, viscerale con la meraviglia e il mistero dell’Etiopia. Decide di viaggiare in macchina fino a Gondar, sul lago Tana, e poi, attraversato quest’ultimo, di proseguire fino ad Addis Abeba, lungo un percorso di circa 700 chilometri, a dorso di mulo. È un’impresa estrema che gli svela nuovi – piccoli e grandi – prodigi: a cominciare dai villaggi di tucul disposti ai lati dell’unica via, ibridati da trattorie dove si beve il Chianti, da botteghe di barbieri e pizzicagnoli, da vetrine di calzolai che attraggono la curiosità delle “sciarmutte”, le donne etiopi, vestite di lunghe tuniche di raso, i capelli raccolti in treccine, la fronte alta, il viso olivastro, gli occhi grandi e neri. Perduto l’antico ruolo sociale di ministre dei riti magici che screziavano la religione copta, pure queste ‘gran dame’ conservano intatta l’antica dignità, che le fa altere, solenni e bellissime. Con un certo grado di consapevole retorica Malaparte descrive la visione quasi mistica della cattedrale di Santa Maria di Sion ad Axum: alta tra tombe, mucchi di spazzatura, pietre sacre e acque sante in una città più antica di Parigi, Londra e Vienna; teca all’icona del Cristo purpureo degli Amara, gli “uomini rossi” dalle facce color di terra arida. Di più si gonfia la retorica quando l’autore narra le gesta dell’Ente Romagna d’Etiopia, che si propone di rifare nel cuore dell’Impero, sull’altopiano dell’Uogherà, lo scenario naturale e umano della terra d’origine, ripetendone insieme le attività e le produzioni più caratteristiche. “Da un anno in qua, il territorio intorno a Dabat è tutto uno strepito di martelli, di seghe, di scoppi di mine: ronzano i tornii, fischiano le macchine agricole, rombano le trattrici”. Vibra ancora, la retorica di Malaparte, nel racconto del pellegrinaggio al cimitero di Mai Lahlà (dove dal 1936 riposano le 85 vittime di un incursione di truppe etiopiche nei cantieri della società nazionale di trasporti Gondrand) oppure nell’orgogliosa rivendicazione che il ‘disastro di Adua’, con le sue sanguinose angoscianti memorie, è ormai dimenticato. È solo la lingua intensa e virtuosistica dello scrittore toscano, invece, a generare il fascino delle splendide descrizioni paesaggistiche che ravvivano il reportage. Si inizia col cielo “mutato” davanti alla costa africana – la volta che “fugge in azzurri gorghi, sprofonda in riverberi altissimi e accecanti” – e col canale di Suez, presentato come un budello infernale in cui si mescolano la pena e il fragore di una metamorfosi; si prosegue con la valle del Mareb – in cui ogni cosa appare fuori posto, come nell’universo surreale di un quadro di Dalì – e con le montagne del Semien, le “Dolomiti d’Etiopia”, “enormi masse di pietra sanguigna”, “così leggere che un soffio di vento potrebbe farle volar
via”, “campane di sasso come immense crinoline” che “si muovono sull’orizzonte, camminano”. I pastori africani sembrano quelli di un presepe, le cicogne remigano nel cielo di Adua e somigliano a quelle cantate da Omero, gli eucalipti “stanno immoti nel sole giallo, e il chiarore argenteo delle foglie mette nel paesaggio un delicato tono di olivo”. La notte etiope è “virile, dai tendini tesi, dai muscoli pronti a scattare”; solo le stelle, che splendono “azzurre e diacce sulle cime dei monti”, mettono “un che di femminile in quella notte avida, calda, ansiosa”. Nell’ora del tramonto, in mezzo ai boschi dell’Uolchefit, si compie un incantesimo oscuro, va in scena un sogno a mezza via tra l’Ariosto e i primi esploratori dell’epoca moderna: “piante straordinarie” hanno “fiori carnosi, dai petali come labbra” e dalla forma di pesci, di polipi, di cuori; “al più lieve urto della mano” dello scrittore, che cammina come incantato, guizzano sui rami, muovono i tentacoli, pulsano e tentano perfino di azzannare. “Al mio avvicinarsi le larghe foglie si muovevano, si spaccavano: vedevo gli alberi girarsi su se stessi seguendomi con lo sguardo”. L’ansia di descrizione, l’occhio acuto di Malaparte e perfino la sua innata vocazione a catturare l’immagine memorabile finiscono peraltro per giocare un brutto tiro (forse coscientemente architettato dallo scrittore) alle finalità propagandistiche del reportage. La prosa sfolgorante – il gioco di lampi che rimbalzano sulle retine e le stordiscono di purezza – pure non riesce a nascondere, e anzi esalta, la realtà autentica e miserabile del grande Impero africano del fascismo. L’Etiopia vista da Malaparte, specie quella lontana dalle ‘rotte ufficiali’, resta eminentemente “una terra dura, arida, rossa d’aspetto e d’umore, di una povertà bellissima e aspra”. L’ambiente non è certo dei più accoglienti: “il terreno lievita intorno, si gonfia in enormi bolle di calore, l’aria sembra debba spaccarsi da un momento all’altro, come una vescica. L’aria ha il colore della pelle, è gialla, tutta bucherellata di pori larghi e grassi, screpolata di mille piccole rughe. E ogni tanto qua e là si spacca, mostrando rossi lembi di cielo, come carne viva”. Gli alberi “sembrano di vetro”, hanno terribili aculei, rami come lance, foglie come coltelli; gli animali sono rari; il poco vento che a volte si alza dà il senso di una “coperta di lana”. Il sole appare “circondato di spine lucenti, come il fiore di un cardo”, e ha raggi “duri, polverosi, corti e acuti” che penetrano attraverso i vestiti. L’ombra non porta ristoro; al contrario sembra corrompere, “infradiciare” la scarna natura. Sul paesaggio in decomposizione volano avvoltoi e ronzano sciami di insetti; dentro, branchi di gazzelle tremano come di febbre e gli uccelli serpentari hanno fattezze di demoni danteschi: invece che code di serpente, dai loro becchi chiusi pendono quelli che hanno tutta l’aria di essere bracci di bambini. In questo paesaggio quasi apocalittico gli abitanti sembrano immersi in un “immoto riposo”, “addossati ai tronchi dei sicomori, degli eucalipti delle euforbie, come i Greci d’oggi alle colonne dei loro templi in rovina”. Il senso della storia è ormai materia di memoria o di sogno; ogni uomo veramente vivo è una presenza incongrua, fantasmatica, mirabolante, eroica. L’Etiopia tutta somiglia alle donne degli “ascari”, i soldati indigeni di supporto all’esercito italiano, che tacite, pazienti, piegate dai sacchi che portano sulla schiena, “spesso con un bambino aggrappato alla schiena”, portano acqua e munizioni, curano le ferite dei mariti in una guerra che non è la loro; camminano ore e chilometri lungo un percorso che non hanno scelto e non vanno, in realtà, da nessuna parte. Lo sforzo italiano di ‘fecondare’ un Paese che sembra bruciato alla radice è forse arbitrario, rischiando di inquinare l’ultimo frutto di un’antica dignità con uno slancio di progresso effimero; di sicuro è anacronistico. Nell’Impero si discute di rendere fertile la terra, di migliorare la qualità dei prodotti agricoli e del bestiame, ma altrove sono ben più avanzate, più avvincenti le sfide tecnologiche. Ignorando il nuovo stadio del capitalismo imposto dalla potenza industriale degli Stati Uniti, Malaparte finisce per invocare e celebrare un cimento romantico, tutto morale. Occupare l’Etiopia e penetrarne i meandri – la natura che vive una complessa subcosciente vita interiore e instaura con l’umanità rapporti di ordine morale più che fisico – può essere solo la via per accedere a un superiore grado di consapevolezza e di dignità dell’uomo. Imitare la lotta tra il popolo etiope e la natura ostile, sapere che non c’è vittoria ma solo ostinazione, sopportazione, fede in Dio che smuove i monti e nel proprio piccolo estro che strappa vittorie di Pirro, è il modo per capire la misura e la dignità dell’uomo nel cosmo. Qualcosa che ha certamente a che vedere con la concezione del fascismo nutrita da Malaparte (e col suo sentire profondo, che esce allo scoperto nella Pelle), ma in niente coincide con gli obiettivi e la propaganda del regime. Qualcosa che era allora e resta oggi (in misura molto minore) antistorico, ma dimostra come Malaparte sia arrivato per vie tortuose a porre una questione – il “nuovo umanesimo”, il vincolo morale tra l’uomo e il mondo – cruciale e presto o tardi ineludibile.