Cara R.,
avevo una tale fame che ho dovuto fare una pausa e sono sceso per cenare in un ristorante vicino, rumoroso, caro e affollato e che, essendo molto frequentato dai turisti, apre abbastanza presto.
No, aspetta, mi correggo. Avevo una tale fame che ho dovuto fare una pausa e sono sceso per cenare in un ristorante vicino, punto, perché la frase iniziale della lettera non è del tutto vera. La frase iniziale, a parte “Cara R.,” è infatti la frase con la quale si apre questo capitolo de L’uomo sentimentale che qui ti offro come prova del nostro patto o follia o gioco o tutte e tre le cose insieme, e l’ha scritta il Leone di Napoli e quindi riguarda lui. È lui che per la fame ha dovuto fare una pausa (è la seconda volta che capita, perché qualche capitolo fa aveva fatto colazione, quasi a rimarcare il fatto che anche i narratori hanno bisogno di mangiare, come è giusto che sia, soprattutto quando sono anche i protagonisti delle storie che ci raccontano), ed è «sceso per cenare in un ristorante vicino, rumoroso, caro e affollato e che, essendo molto frequentato dai turisti, apre abbastanza presto».
Io invece sono andato a cena in un ristorante vicino casa mia, perché mi era venuto appetito e in frigo non avevo nulla. Il ristorante non era né rumoroso né tanto meno caro e affollato, ma c’era il televisore acceso a volume azzerato e il bello è che stavano trasmettendo l’inizio di un film che ho già visto diverse volte. Non un film in bianco e nero come capita nei romanzi di Javier Marías: è a colori ed è Fine di una storia di Neil Jordan, con Ralph Finney e Julianne Moore, tratto dall’omonimo romanzo di Graham Greene.
Anche questa è una frase iniziale. È la frase che Maurice Bendrix, il protagonista di Fine di una storia batte a macchina e che noi leggiamo sul foglio e ascoltiamo dalla sua voce. «E forse non lo scriverei se spinto da un demone non avessi fermato Henry quella sera sotto la pioggia», continua a scrivere Bendrix, soltanto che adesso la sua voce è come fuori sincrono, perché ora sullo schermo non è più seduto a scrivere ma lo vediamo camminare sotto la pioggia, riparato dall’ombrello, mentre un uomo, zuppo e grondante acqua, gli passa accanto. Bendrix lo riconosce e lo chiama: «Vuoi annegare, Henry?», gli dice. E insomma, finisce che Bendrix accompagna Henry a casa e tutto sarebbe nella normalità se non fosse che un anno e mezzo prima Bendrix era stato l’amante di Sara, la moglie di Henry Miles, senza che quest’ultimo lo abbia mai sospettato.
Cara R., lo so che se adesso mi mettessi a raccontare la trama del film e del romanzo dal quale il film è tratto potrei darti l’impressione di divagare e di allontanarmi dalla strada percorsa dal nostro Leone di Napoli, quando invece non è così. Non lo è perché i destini di Maurice Bendrix e del Leone di Napoli sono in qualche modo legati e perché l’incontro casuale di Bendrix con Henry Miles – di notte, sotto la pioggia battente e la nebbia, dopo che per un anno e mezzo egli non ha più saputo niente di Sara e del perché la donna lo abbia allontanato – ha la stessa valenza del sogno dal quale il Leone di Napoli prende a raccontare la sua storia. La fine della “sua” storia. Sembrano entrambi dei meri espedienti narrativi, e di certo lo sono, ma rispondono a un’idea precisa che Graham Greene spiega mirabilmente nell’incipit del romanzo: «Un racconto non ha né principio né fine: si sceglie arbitrariamente un certo momento dell’esperienza dal quale guardare indietro, o guardare in avanti. Dico: “si sceglie”, con l’orgoglio generico di uno scrittore professionista il quale – se e in quanto è stato seriamente notato – è stato lodato per la sua abilità tecnica; ma sono poi veramente io che di mia volontà propria ho scelto quella nera e umida sera di gennaio sul Common del 1946, e lo spettacolo di quell’Henry Miles curvo a schermirsi contro i vasti rovesci della pioggia, o sono state queste immagini a scegliere me?».
Immagini. Bendrix, che nella finzione del romanzo è uno scrittore, parla di immagini. Esattamente come ne parla all’inizio de L’uomo sentimentale il nostro cantante d’opera: cosa sono infatti i sogni se non delle immagini proiettate dalla nostra psiche mentre dormiamo? Immagini perdute. Gli anni delle immagini perdute che in qualche modo attraverso la scrittura si cerca di recuperare pur sapendo che non ci sarà niente che le possa riportare in vita. Dico: “in vita”, come se Natalia Manur fosse morta. A essere morta, in verità, nel momento in cui Bendrix comincia a scrivere il suo diario – il diario di un odio – è Sara. Natalia Manur, invece, è viva e nel capitolo che qui stento a riassumerti, il Leone di Napoli ci rivela come quel mattino, quando dopo il sogno si è svegliato, «nel nostro letto fuori del comune con quattro zampe di leone lei non c’era». «E non è ancora tornata a casa», aggiunge ora che il giorno sta per finire. Insomma, o io non avevo colto questa sfumatura o fin qui il nostro protagonista ha volutamente omesso come lui e Natalia, a seguito degli eventi che qui egli ci racconta, siano rimasti insieme. Per quattro anni. Perché tanto è durata la loro storia che ora però sembra giunta al termine. La prova è il fatto che nell’appartamento dove vivono mancano diverse cose di Natalia che lei deve aver sistemato in due valigie flosce e in una grande borsa – mancano anche queste. E anche se la donna non ha lasciato alcun biglietto, il nostro cantante d’opera, esperto nel congetturare, si è fatto l’idea che Natalia sia partita per raggiungere il fratello Roberto in Argentina. Perché ora il Leone di Napoli si rende conto di come negli ultimi mesi Natalia abbia dato chiari segni di stanchezza e prostrazione. Fisica e psicologica. Rideva meno, le erano tornate le occhiaie, aveva ripreso a mordicchiarsi le pellicine attorno alle unghie, e negli ultimi viaggi fatti per accompagnarlo in giro per i teatri d’Europa, una volta giunti in un albergo, non aveva le forze neanche per disfare le valigie e si sdraiava sul letto per rimanerci per giorni interi, rifiutandosi di uscire, senza essere presente né alle prove né la sera della prima. E quando lui tornava in albergo la trovava distesa sul letto, avvolta in un grande asciugamano, a sonnecchiare con la televisione accesa senza audio (mi piace credere all’eventualità che una sera, magari a Londra, magari tornando da uno studio di incisione in una notte di pioggia, il Leone di Napoli, una volta salito in camera e con il cappotto zuppo, abbia visto scorrere sullo schermo del televisore rimasto acceso, le stesse immagini di Fine di una storia che ho rivisto io poco fa, in qualche modo riconoscendosi o provando una qualche forma di straniamento come capita quando ci si vede da fuori. Sebbene questo sul piano della realtà sia impossibile, perché L’uomo sentimentale è del 1986 mentre il film di Neil Jordan è del 1999. Esistendo comunque la possibilità che su quel televisore, a scorrere fossero le immagini che dal romanzo ne aveva tratto, due anni dopo l’uscita, Edward Dmytryk, giacché il suo film è del 1955).
Tutto è accaduto negli ultimi mesi: il deterioramento di un rapporto. La fine di una storia, appunto. O, meglio, The End of the Affair, che è poi il titolo originale del romanzo e del film (di entrambi i film), dove la parola “affair”, potrebbe anche essere tradotta con “relazione”, “tresca”, “tradimento”, e rimanda comunque a un “affare”, a una “compravendita”. Sembra cioè essere perfetta per connotare, non tanto il rapporto tra Maurice Bendrix e Sara Miles, quanto quello tra Hieronimo Manur e la moglie («Manur come Il mercante di Venezia, o meglio, come Shylock», scrivi tu nella lettera precedente).
E ancora, cara R., ammira la maniera in cui Leone di Napoli ci rivela soltanto adesso come la storia tra lui e Natalia sia proseguita per quattro anni. Il suo tempismo drammaturgico, per così dire. Perché in verità, nel momento in cui ci informa di questa cosa, egli ci dice anche che proprio quella stessa notte o quella stessa mattina Natalia è andata via. Forse per sempre. E allora, mia carissima R., non hai quasi l’impressione che questo intervallo di tempo è come se non fosse mai davvero esistito? Per più di cento pagine il Leone di Napoli ha sottratto a noi lettori la presenza di Natalia per poi mostrarcela con il segno opposto dell’assenza. È un modo per farci capire come a lui sia accaduto – o meglio, come a lui ogni cosa si sia predisposta in maniera tale che alla fine non potesse non accadere e, quindi, ripetersi – ciò che era accaduto quattro anni prima a Hieronimo Manur. Di essere abbandonato senza che Natalia a parole gli abbia detto niente. «Quando alla fine me ne andrò, non lo saprai» preannunciava Natalia al marito (e neanche noi lettori lo abbiamo saputo prima, mi viene da aggiungere). E adesso, proprio durante la notte o nel mattino in cui il Leone di Napoli ci dice di aver sognato quell’abbandono di cui si sente responsabile, Natalia fa le valigie e se ne va. Insomma, il nostro cantante d’opera sogna una scena che si sta riproponendo, come se il suo inconscio gli rappresentasse sotto forma di visione alterata, attraverso una sostituzione, uno spostamento, (ciò che già accade nello scompartimento del treno nel primo capitolo: l’immagine duplicata, sdoppiata, ripetuta nel vetro del finestrino), qualcosa che lo riguarda da vicino. Come un’allerta, un campanello d’allarme. Come a dirgli: ti proietto questo sogno ma tu svegliati e fallo in fretta, perché Natalia sta per rifare quello che aveva fatto anni fa per stare con te ma questa volta è per allontanarsi da te.
«Nessuno veglierà il mio sonno né io veglierò quello di Natalia Manur» dice ancora una volta il Leone di Napoli, riecheggiando la sua stessa voce, come se egli replicasse sé stesso all’infinito o nel mondo finito di questo suo diario che è, come per Bendrix, un diario sull’odio. L’odio per qualcosa contro cui l’uomo non può niente. In Fine di una storia l’odio di Bendrix è verso Dio, perché tra Bendrix e Sara e tra Sara e Henry Miles non c’è un terzo uomo ma Dio. Ne L’uomo sentimentale, Dio non c’è e c’è soltanto la natura tragica di Natalia, la sua inquietudine, contraddittorietà. Quel suo essere afflitta da dissoluzioni malinconiche. Perché questa frase, «forse vidi che era afflitta da dissoluzioni malinconiche», che giungeva al termine del primo capitolo, (e che poi è tornata in almeno un paio di passaggi), chiude anche questo capitolo come chiuderà questa mia lettera che è in odore di ripetizioni. Le stesse a cui ricorre quasi sempre Javier Marías, maestro indiscusso e inimitabile delle ripetizioni. Ripetizioni di intere frasi, periodi che nel corso della narrazione ritornano più volte, dapprima enunciate con il segno di probabilità – «forse» – poi quasi sempre confermate dallo svolgersi della trama. Come premonizioni suffragate dai fatti. Una maniera di risolvere all’interno del testo stesso e della sua costruzione sintattica la tragedia dell’ineluttabilità del destino. Perché forse la storia de L’uomo sentimentale è la storia di un uomo, il Leone di Napoli, che tenta invano di salvare una donna – Natalia Monte, coniugata Manur – dalla propria tragedia: quella di essere, appunto, afflitta da dissoluzioni malinconiche. «Ma in realtà è stato soltanto questa mattina, svegliandomi dal mio sogno con la rinnovata immagine dell’unico istante (e così ve l’ho raccontato) in cui il suo volto mi è apparso con chiarezza, che mi sono reso conto che l’espressione degli ultimi tempi, il non-sguardo che prevaleva in lei mentre se ne stava sdraiata a sfogliare riviste o a guardare distrattamente qualche trasmissione o al massimo affacciandosi alla finestra e osservando impassibile un bel viale o una piazza storica o una venerabile chiesa o gli enigmatici abitanti di qualche paese trasformato in miniature articolate, era la stessa che avevo visto quella prima volta e che mi aveva fatto capire che Natalia Manur (di cui ancora non conoscevo il nome) era afflitta – come avevo detto? – da dissoluzioni malinconiche».
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Tuo G.