Gretel ha trentadue anni ed è una lessicografa: aggiorna, cioè, le voci del dizionario e ora sta lavorando intorno alla parola “rompere”. Un verbo insidioso, di quelli che sfidano le definizioni più semplici, soprattutto per chi, come lei, vive sola da sedici anni difendendo la propria solitudine e «dandole spazio come altri danno spazio alla religione e alla politica». Tutto questo da quando, abbandonata dalla madre in circostanze misteriose, Gretel è stata costretta a cercare di rompere in maniera definitiva con il linguaggio dell’infanzia. A romperlo per costruirne uno proprio. Ma ecco che un giorno il telefono squilla e dopo sedici anni Gretel ritrova la madre, Sarah, ormai affetta da demenza senile. E con la madre ritorna a fluire impetuoso il “lessico famigliare” che sembrava perduto; ritornano i luoghi in cui madre e figlia vivevano al di fuori delle regole sociali – in una barca lungo il fiume nell’Oxfordshire – e ritornano le parole per nominare le cose e si riaffacciano alla memoria la figura di Margot e quella di Marcus, un ragazzo che per un mese aveva vissuto con loro sulla barca. Un ragazzo che, forse, aveva ucciso un uomo. Come se improvvisamente quel mondo apparentemente sommerso riemergesse dall’acqua o – meglio – nell’acqua riprendesse a scorrere. Perché aprire il libro di Daisy Johnson, Nel profondo (Everything Under), appena pubblicato per Fazi Editori nella collana “Le strade” (270 pagine, euro 18), con la traduzione di Stefano Tummolini, significa questo: significa tornare a un passato mitico, andare alla ricerca delle tracce che la propria memoria conserva, evocare nuovamente le presenze spettrali che popolavano la nostra infanzia (il Bonak) per provare a scoprire cosa davvero a un certo punto è accaduto di così grave che potesse giustificare un abbandono.
“Il cottage”, “Il fiume”, “La caccia” sono i luoghi e i temi ricorrenti che non a caso tornano più volte nei titoli dei capitoli di un romanzo in cui la narrazione sinuosa e aggrovigliata restituisce l’impressione di stare osservando qualcosa che la corrente di un fiume trascina ma che dalla riva non distinguiamo bene. Quello che vediamo passare potrebbe essere un tronco, una carcassa di un animale, un cadavere. Per capirlo, dovremo tuffarci. Esistendo comunque la possibilità che ciò che noi vediamo forse non esiste o che forse esiste ed è tutte e tre le cose insieme. Perché si è stratificato. Come nel mito e nella tradizione popolare, dove le cose sono tutt’uno con il loro simbolo. Le cose e le persone – i personaggi – che incarnano l’ambiente e ne sono da esso plasmati (noi siamo i luoghi in cui siamo nati e cresciuti e «i luoghi dove siamo nati ritornano»). Innanzitutto Sarah, della quale Gretel dice: «Tu eri quel fiume sudicio; eri la corteccia dei pini sotto cui mi riparavo d’estate, la terra su cui spargevo le mie trappole di metallo». Sarah che è «come un predicatore o il capo di una setta», ma anche «un corridore, una donatrice». Fulcro e catalizzatrice degli eventi deterministici che seguiranno, è come se attraverso di lei Daisy Johnson abbia riscritto l’Edipo Re di Sofocle, perché Sarah è in qualche modo l’estensione della figura di Giocasta mentre è nel binomio Margot/Marcus che si esplica l’avveramento della profezia: «Ucciderai tuo padre, gli disse, non appena riprese fiato. Farai sesso con tua madre».
Candidato al Man Book Prize, Nel profondo è un romanzo ancestrale, enigmatico, nel quale ogni elemento è duplice, perturbante, fluido, come se contenga dentro di sé, chiusa ma pronta a germogliare, la propria metamorfosi. È l’inconscio dei personaggi che assume di volta in volta forme e voci differenti nel tentativo di emanciparsi e, al contempo, di mimetizzarsi con quella natura che è stata innanzitutto la propria educazione sentimentale, il proprio codice e alfabeto. Tutto quello che, per esempio, Gretel è, lo deve alla madre, alla quale per anni ha dato la caccia e che ora ritrova. Lei, figlia, che fa da madre alla propria madre. Lei, Gretel, che risale la regressione mentale di Sarah come se stesse risalendo il fiume per setacciare ogni angolo della vegetazione e finalmente guardare in faccia il proprio passato.
«Cosa ci restituisce quel fiume tortuoso dimenticato dal tempo – conficcato come uno spuntone nel dorso del paese? Cosa ci portiamo dietro da allora? Una ragazzina un po’ selvatica con una madre ancora più selvatica di lei, rintanate come demoni o animali lontano da tutto e da tutti. Guarda che fine abbiamo fatto. Siamo l’ombra di noi stesse, due miserabili votate all’autodistruzione o a massacrarsi a vicenda, rinchiuse in un cottage troppo piccolo per viverci insieme. A volte mi ricordi Fiona, la sua fame avida e disperata; la follia, la solitudine e il terrore che la divoravano, per colpa del segreto che si portava dentro. E Marcus che vi amava entrambe, di un amore immenso che non gli ha mai portato niente di buono. Ma io ti voglio bene, mi dici dentro al supermarket, e vorrei dirti che per me è lo stesso, ma non ci riesco, non ancora; non ce la faccio a darti amore. E vorrei dirti che forse ce la siamo inventata. La cosa che quell’inverno premeva sotto le acque gelide e calme, che si è avvinghiata sotto ai nostri sogni, lasciandoci dentro alla testa le impronte dei suoi artigli. Vorrei dirti che forse non sarebbe mai esistita, se non l’avessimo immaginata».