Mio caro G.,
finalmente posso riprendere il filo del nostro discorso. Finalmente posso rileggerti e leggere il capitolo de L’uomo sentimentale che mi spetta. Come una buona azione che merita ricompensa. E la ricompensa è il nostro dialogo: sei tu, è Marias; in questo strano miscuglio di voci che ci abitano e ci attraversano, rincorrendosi come scherzi di vento su per i pendii del nostro stare in ascolto. Baratri e picchi, molto spesso e sempre più agganciati in un’unica immagine, in un’unica essenza: la notte scura che siamo, scura perché misteriosa ed echeggiante di ombre, in sinestesia perenne.
È un gioco, il nostro; è la vita? Mi lascerai mai, ti stuferai delle attese? Non siamo più nell’epoca delle lettere. Chi ha ancora tempo di comunicare senza la certezza della risposta immediata?
Non si può certo dire che noi due assomigliamo a Madrid, la città che nel libro che stiamo leggendo insieme Marias descrive in questo modo: “sembra avere fretta di dire tutto, come se fosse cosciente che la sua sola possibilità di conquistare il viaggiatore consiste nello sbalordimento e nell’impetuosità sfrenata”.
Si potrebbe allora credere che il tempo intercorso tra la tua scrittura e la mia abbia lasciato spazio alla riflessione e alla lettura di quello che tu hai messo sul piatto. Stavolta mi hai portato da Henry James a Kazuo Ishiguro, a Quel che resta del giorno. Potresti pensare -l’hai fatto?- che io nel frattempo abbia letto il romanzo. Non l’ho letto, te lo dico subito, e so che è un’occasione persa. Ho però rivisto il film, il che è diverso, d’accordo; anche la scena che citi tu nel film si svolge in maniera differente. Non c’è proprio modo che letteratura e cinema si giurino fedeltà, e se lo fanno sono promesse da marinai. D’altronde è quello che facciamo noi due: traduciamo ciò che leggiamo in qualcosa che ci possa corrispondere e che possiamo capire, sentire e capire, facendolo entrare nel nostro mondo. Perché tu sia la mia vita di conoscenza. Dice Marias che la traduzione di un’opera è come una partitura musicale: “La partitura non cambia, ma suona in modo differente ogni volta che la si interpreta, e in realtà si può dubitare della sua esistenza solo se non viene interpretata, se non ha luogo, se non succede” (Quanto ha a che fare questo discorso con il protagonista del nostro libro…) Lo dice anche Enrico Terrinoni in quel suo libro spericolato che è Oltre abita il silenzio. Tradurre la letteratura. Lo diceva uno scrittore esoterico come Pessoa parlando del traduttore invisibile e dei fili nascosti che legano la trama del nostro inconscio letterario. Non solo letterario, va bene. Ma l’universo verbale è la nostra casa, la nostra possibilità fatta di suoni e silenzi. Come le nostre lettere, intervallate da brevi o lunghe pause. Lo spartito della nostra vita di conoscenza. Ancora queste parole, ancora tornano all’orecchio e fanno chiasso perché ancora vogliono essere dette. Scopriremo poi a cosa condurranno, lo scopriremo a fine lettura de L’uomo sentimentale; o forse ancora no, non vorranno lasciarci, vorranno essere pronunciate ancora e ancora, per non scomparire e dare titolo ed espressione musicale alle nostre fughe e alle rincorse.
Ma forse ho divagato abbastanza e ora torno dunque al nostro Marias che tu hai lasciato in un albergo di Madrid a riflettere sulla solitudine che lo assale, lui cantante d’opera, il Leone di Napoli, che viaggia spesso per le città del mondo o forse solo per quelle europee, lui che paragona quel suo senso di solitudine, spaesamento e alienazione a quello dei rappresentanti di commercio in cui, quattro anni prima, ravvisava “un’ombra o un’anticipazione” di ciò che poteva attenderlo: la disperazione che porta in una sola direzione...
I commessi viaggiatori di Arthur Miller, Morte di un commesso viaggiatore? Certamente la fine non è molto diversa visto che Willy, il protagonista della pièce, ormai esasperato, si toglie la vita. Ma non in un albergo, questa è la differenza, anche se c’è una scena che, nel ricordo impazzito di Willy, torna; ed è una scena ambientata proprio in un albergo, dove drammaticamente si spezza il rapporto padre-figlio. Willy si toglie la vita perché ha ancora bisogno di sognare, come dice Charles davanti alla sua tomba: “ Non calunniate quest’uomo. Tu non hai capito: Willy era un commesso viaggiatore. E se tu fai il commesso viaggiatore non vivi sulla terra. Non sei il tipo che avvita un bullone o mi legge gli articoli del codice o mi prescrive la ricetta. Tu lavori così, per aria, aggrappato a un sorriso o al lucido che hai sulle scarpe. E quando nessuno ti sorride più, è la fine del mondo. Da quel momento cominci a sbrodolarti il vestito e addio, sei finito. Non calunniate quest’uomo. Un commesso viaggiatore deve sognare. I sogni fanno parte del mestiere”.
Ma che succede se il sogno sbiadisce? Certo Miller parlava del sogno americano, un sogno di gloria in cui contano soldi e posizione sociale; ma non solo, perché il sogno avviene quando la volontà è sospesa e sbuca imprevisto qualcos’altro (nel caso di Willy è l’amore che il figlio prova per lui e di cui finalmente si accorge; un dono e un sacrificio per dargli futuro, quello che fa togliendosi la vita e garantendogli così la riscossione del premio di assicurazione): la libertà deriva proprio dal sognare cose che accadono senza intervento alcuno di chi le sogna. Lo dice Karen Blixen ne La mia Africa quando parla della libertà del sognatore, “non la libertà del dittatore che vuole imporre la sua volontà nel mondo, ma la libertà dell’artista privo di volontà, libero dal volere. Il piacere del vero sognatore non dipende dalla sostanza del sogno, ma da questo: tutto quello che accade nel sogno non accade solo senza il suo intervento, ma fuori del suo controllo”. Ma il sogno finisce quando l’alba si alza e impone progetto e impegno. E sforzo. E finisce quando l’hai perso, quando intuisci d’averlo perso, nominandolo e imponendogli uno statuto diverso rispetto alla realtà di tutti i giorni. Allora rimane solo l’addio. Out of Africa, via da lì.
Dunque sognare, viaggiare… Quanto a me, non riuscirei a farlo di mestiere, non più. Ho girato l’Italia per un paio d’anni abbondanti e devi sapere, caro G., che il mio vero incubo sono sempre stati i letti. Sì, i letti: non riesco a dormire dove altri si sono abbandonati al sonno, mi fa impressione. Non ridere e non scandalizzarti, ognuno ha le sue manie. E così, poco e male, riesco a riposare solo se mi porto dietro tutto un armamentario che isoli il mio corpo dai possibili contatti con i sogni altrui. È follia, certo. Follia solitaria. Non come la nostra che è à deux. La follia solitaria che mi è rovinata addosso quando ho terminato di vedere Quel che resta del giorno. Era ormai sera ed io dovevo chiudere le imposte. Davanti a me una casa con le finestre illuminate e una tavola preparata per molte persone. Io dovevo solo chiudere tutto e prepararmi qualcosa da mangiare, qualcosa che avrei consumato da sola pensando al chiacchiericcio a solo pochi metri di distanza. Aprire e chiudere le finestre, guardare altre vite e non pensare alla solitudine di questa casa, una solitudine scelta ma qualche volta triste. Quella di chi è straniero nella propria città.
Ma insomma, dirai, non arrivi mai al punto, non mi dici cosa succede nel capitolo de L’uomo sentimentale che dovevi leggere? Ci arrivo, caro G., piano piano. È solo che vorrei dirti molte cose, dunque mi devi scusare se ci giro attorno. La difficoltà sta anche nel carattere onirico di questo romanzo che, fin qui, accenna al sogno senza dirlo mai. Cosa vuoi che capisca, io? Balbetto parole, mi tremano pensieri ed emozioni che devo verbalizzare. Lascio che sia e vado alla cieca cercando la strada per arrivare a te. A te in qualche città che non sia la nostra, non la mia e neanche la tua, ma un luogo neutro dove tutto sia nuovo, dove lo stordimento del viaggiatore raggiunga il suo culmine.
Ti rimando una suggestione: sai dove ha composto questo romanzo, il nostro Marias? A Venezia, l’ho scoperto solo qualche giorno fa leggendo il suo Venezia, un interno. Allora, perché non concederci un incontro in quella città sospesa, perché non andare alla ricerca delle sue tracce, tracce di Marias, sperando di ritrovare le nostre?
Non a caso, immagino, nel capitolo del libro che mi spetta, il nostro cantante d’opera rivela di essere arrivato a Madrid, quattro anni prima (che è il tempo del sogno sognato la stessa mattina in cui si apre il libro), per interpretare il ruolo di Cassio nell’Otello di Verdi. E allora vedi come c’entra, non solo il sogno, ma anche Venezia, la Venezia del Moro, la Venezia di Marias e la nostra, che è ancora solo in potenza?
Comunque sia – e ti lascio il tempo sacrosanto per pensare alla proposta – in questo capitolo de L’uomo sentimentale fa la sua seconda apparizione un altro dei personaggi che abbiamo intravisto nel primo, quando la scena si era aperta su un treno. Questo personaggio (Dato, si chiama), uno dei tre che avevamo scorto nello stesso scompartimento del protagonista, ora gli piomba davanti, o meglio, è seduto di fianco a lui al bancone del bar dell’albergo in cui entrambi soggiornano. I due si riconoscono e le parole che Dato pronuncia (“lei qualche giorno fa si trovava sullo stesso treno su cui eravamo noi, non è vero? Non si ricorda?”) sono quelle che tornano incessanti nel sogno del protagonista (quello di quattro anni dopo). Il punto è che il nostro cantante non è in grado di distinguere la realtà dal sogno, tanto più che non vuole farlo e non desidera che un campo predomini o aggredisca l’altro. Pensiero e sogno condividono una stessa potenzialità.
Così per mantenere intatta la sfera del sogno, che con il secondo risveglio, ha letto da qualche parte, quello dello stomaco, potrebbe perdere di consistenza, il Leone di Napoli decide di non fare colazione e si accinge a “raccontare entrambe le cose, quel che è accaduto e il sogno di quel che è accaduto, dato per acquisito il non poterle distinguere”.
Mio caro, la parola torna a te.
Ti abbraccio,
tua, R.