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Dall’uomo sentimentale a Quel che resta del giorno

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Mia cara R.

È vero, io ho già letto L’uomo sentimentale, ma l’ho letto anni fa, prima di conoscere te, e quindi appartiene a un tempo in cui tu non c’eri e in cui leggevo per me solo – o così mi sembra ora – e non ne ricordo più la storia, cosa accadrà all’uomo e alla donna che tu hai lasciato in una stanza d’albergo in questa sorta di flash-forward in cui si anticipa come loro si incontreranno. E si ameranno, certo, se è vero quanto lui dice a lei, l’enormità di questo suo dire: «Tu sei la mia vita e il mio amore e la mia vita di conoscenza, e poiché sei la mia vita non voglio avere nessun’altra persona se non te quando morirò».

Sei la mia vita di conoscenza.

Prima di proseguire, ho riletto più volte il secondo capitolo tentando di comprendere lo stato d’animo di quest’uomo e cosa volesse esattamente dire alla donna, questo suo slancio a fare della propria vita un’opera consapevole istante dopo istante. Perché sì, Rossella, hai ragione: lui stesso sembra aver letto e conoscere il racconto di Henry James La bestia nella giungla che rappresenta un monito. Come mi ricordi tu: sentire che la propria vita è destinata a qualcosa che percepiamo come grande e attendere che l’occasione arrivi, che il destino si compia, e quando infine realizziamo la natura di questo slancio, è ormai troppo tardi. Per John Marcher era soltanto l’amore. Ma l’amore nel suo significato più pieno. L’amore che ci permetterebbe di avere piena coscienza della vita e grazie al quale ne apprezzeremmo, forse, il senso. Non un’idea romantica, imprecisa e vaga di amore come immortalità, che sconfigge la morte, ma piuttosto il contrario: tu sei la mia vita di conoscenza perché grazie a te esperisco in ogni istante come la vita mi corrisponda e come, quando morirò, non avrò vissuto da solo e invano. Grazie a John Marcher, mi fai venire in mente, Rossella, anche un altro personaggio: il maggiordomo Mr Stevens, protagonista di Quel che resta del giorno, di Kazuo Ishiguro. Mr Stevens, che ha speso la sua intera vita a servizio di Lord Darlington, un gentiluomo moralmente discutibile, non soltanto si è reso “complice” del suo padrone ma, come Marcher, non è stato in grado di riconoscere l’amore. L’amore di Miss Kenton, che anni prima aveva lavorato con Mr Stevens a Darlington Hall. Mr Stevens è anche lui un personaggio cieco, magari di una cecità diversa rispetto al protagonista del racconto di Henry James ma, se vogliamo, ancora più tragica: Marcher alla fine comprende, Mr Stevens no. O forse ormai è così rassegnato da continuare a mentire – a fingere di mentire – a sé stesso.

Ricordi, Rossella, la notte in cui Mr Stevens parla con Mr Cardinal mentre nella sala Lord Darlington cena con il Primo Ministro inglese e con l’Ambasciatrore tedesco? Bene, Mr Cardinal cerca di aprire gli occhi a Mr Stevens, dicendogli chi in verità sia il suo padrone e che cosa si propone di ottenere da quella cena, ma Mr Stevens non se ne cura e risponde in maniera sollecita quando gli si chiede di andare a prendere una bottiglia di porto in cantina. Lui scende e nel corridoio incontra Miss Kenton. Te la ricordi questa scena? Miss Kenton si scusa per alcune cose poco piacevoli che ha detto prima e poi torna nel suo salottino. Devi sapere che Miss Kenton aveva da poco annunciato a Mr Stevens che si sarebbe sposata e che avrebbe, di conseguenza, lasciato Darlington Hall. Ebbene, Mr Stevens non aveva replicato nulla. E ora egli si ricorda che dopo essere andato a prendere la bottiglia, tornando indietro, si era soffermato un attimo davanti alla porta del salottino di Miss Kenton: “E fu quello il momento, oggi ne sono certo, che è rimasto così insistentemente impresso nella mia memoria – il momento in cui mi fermai nella semioscurità del corridoio, con il vassoio fra le mani, e una crescente convinzione che si faceva strada dentro di me, che a soli pochi metri di distanza, dall’altro lato di quella stessa porta, Miss Kenton in quel momento stesse piangendo. A quanto ricordo non vi era alcuna prova reale a conforto di questa mia convinzione – non avevo sicuramente sentito alcun suono che indicasse un pianto -, eppure ricordo come fossi abbastanza certo che se avessi bussato e fossi entrato, l’avrei trovata in lacrime. Non so per quanto tempo io sia rimasto lì in piedi; in quel momento mi parve un periodo di tempo considerevole, ma in verità ho il sospetto che debba essersi trattato soltanto di una questione di pochi secondi. Perché, naturalmente, era necessario che mi affrettassi al piano di sopra per servire alcuni dei più illustri gentiluomini della terra e non riesco ad immaginare che io possa essermi indebitamente attardato”.

Povero, povero Mr Stevens…

Chi invece non mente mai a sé stesso è il protagonista de L’uomo sentimentale, un cantante lirico, noto come il Leone di Napoli che nel terzo capitolo ci dice come la sua professione lo costringa a condurre spesso una vita molto solitaria nelle grandi capitali del mondo. Anche nella stessa Madrid, dove pure egli ha trascorso parte dell’infanzia e dell’adolescenza e dove egli si stava recando quattro anni prima in treno quando incontrò per la prima volta i tre volti sognati, (sognati quattro anni dopo, cioè ora, o comunque nel momento in cui egli parla o scrive).

Inutile che ti faccia notare, Rossella, la maniera in cui Marías, attraverso continui salti in avanti e continue analessi, spezzi il tempo lineare del racconto, finendo però in maniera strabiliante a restituirci il sentimento della linearità della nostra vita. Per linearità della nostra vita intendo come ciò che ci accade nel nostro esistere sia continuamente suscettibile di rettifiche, a seconda appunto delle conseguenze, di ciò che ci accade dopo. Perché nel momento in cui viviamo determinati fatti ed esperienze, spesso non ci rendiamo conto di come ciò che ci può apparire in un primo momento casuale e fortuito, possa invece ripresentarsi in futuro, gettando su tutto il passato una luce diversa. Scusami, mi sto incartando, ma tu, che conosci Marías meglio di me, avrai chiaro cosa intendo, perché i libri di Marías non sarebbero quello che sono senza questo straordinario e stritolante lavorìo sul tempo.

Io, per esempio, quando ti ho conosciuta, vista per la prima volta anni fa, e sentito la tua voce – perché anche tu quella sera leggesti – non potevo sapere che poi ci saremmo cercati e visti nuovamente. Non potevo saperlo razionalmente, ma dentro di me, oggi, posso forse dire che ne avevo avuto un presentimento, che avevo “avvertito” qualcosa. È esattamente ciò che accade nelle storie di Marías e il fatto che ora io e te ci scriviamo lettere proprio per condividere questi sentimenti, be’, rasenta quasi la perfezione. È come dare concretezza a un sogno. Perché ciò che a me piace, ad esempio, ne L’uomo sentimentale, non è soltanto la vicenda in sé, ma la complessità dei sentimenti e il modo in cui ci vengono rivelati pian piano. La solitudine, anche, che io sento forte, che ho sempre sentito forte, fin da quando ero bambino. La solitudine che qui è incarnata dalla voce di un cantante lirico che viaggia negli alberghi di tutto il mondo. Io non ho viaggiato come ha viaggiato lui: il mio mondo è certo più piccolo del suo; però sono stato negli alberghi di qualche città – qualcuna anche straniera – che non conoscevo e dove ho provato uno strano tipo di solitudine e smarrimento. Uno dovrebbe sentirsi libero in una città che non conosce, e forse, se ci va per turismo, libero ci si sente. Ma se ci va per lavoro, è diverso: non si ha il tempo di andare in giro, ci si attiene a un programma stabilito da altri che non conosciamo, e spesso le persone con cui si deve stare insieme, non ci corrispondono, e non si conosce nessun altro, e allora il mondo paradossalmente rimpicciolisce e quando si ha un po’ di tempo si preferisce restare nella hall dell’albergo o in camera o nel bar. Per sentirsi protetti, non troppo esposti. Il protagonista de L’uomo sentimentale a un certo punto dice che la solitudine che egli prova non è diversa da quella dei rappresentanti di commercio, “con l’eccezione che quest’ultimo mestiere sta cessando di esistere, è in via di estinzione, senza dubbio perché i responsabili delle aziende, essendo in generale molto pragmatici e poco umanitari, si sono resi conto del fatto che nessuno può condurre una vita così dispersa e dura”. E racconta di come, in ogni albergo in cui ha soggiornato, ci sia sempre stato un viaggiatore di commercio che si è ucciso – tagliandosi le vene – o che ha accoltellato qualcuno – quasi sempre un commesso dell’albergo – o che è impazzito – e allora ha tirato su le gonne in ascensore alla moglie di qualche membro di qualche governo o ha dato fuoco a un tappeto o ha distrutto a colpi di estintore gli specchi della sua camera. Egli, il nostro cantante lirico – che per anni ha girato il mondo per esibirsi in ruoli, però, minori, come a dirci che egli non ha mai interpretato parti da protagonista, giacché nelle opere in cui cantava erano altri a forgiare il destino –, con il tempo ha imparato a riconoscerli, questi rappresentanti di commercio: da un gesto, da uno sguardo, da una parola che gli ha sentito dire. A riconoscerli e riconoscersi. Perché a volte ha creduto di vedere in loro un’ombra o un’anticipazione di ciò che lo avrebbe atteso un giorno: la morte, la distruzione o lo stare per distruggere la propria vita. E se questo non è accaduto ancora – dirà sempre il nostro protagonista – è perché mentre il rappresentante di commercio ha della propria esistenza una visione nitida, non altrettanto il cantante lirico che, a causa del trucco, ha meno chiaroveggenza. Ha la speranza, anche. La speranza di essere un giorno il protagonista. “Ma la speranza” – come scriveva Valerio Zurlini alla fine del suo diario veneziano, e poco prima di morire – “non ha mai cambiato il tempo dell’indomani”.

La mia sensazione, Rossella, è che anche qui, in questo libro che ora è nuovamente tra le tue mani, a parlare sia qualcuno – il nostro cantante lirico – che non può più cambiare il tempo dell’indomani, perché qualcosa deve essergli accaduto: a lui, alla donna, agli altri due uomini che ha sognato. Qualcosa che ha a che fare con la natura del tragico e ora egli riporta a noi come uno strazio.

Tuo G.

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