Un racconto inedito di Dan Fante, nella traduzione di Nadia Chezzi, in cui lo scrittore americano ricorda il padre John ed in particolare il rapporto, un tempo conflittuale, tra i veri artisti della scrittura e l’allora nascente industria cinematografica di Hollywood. Ricordiamo il suo romanzo Buttarsi (Marcos y Marcos) tra droga di quart’ordine, sesso estremo e alcol, un libro rock come se ne vedono pochi: perché non ci sono solo disperazione e sconforto ma tutta la poesia, anche autobiografica, della rinascita e della speranza. E sempre per Marcos y Marcos ricordiamo l’edizione di Angeli a pezzi che ha consacrato Dan Fante tra le voci narrative più interessanti d’America. Quella che Dan Fante racconta è la sua storia, o meglio: è la storia del suo viaggio attraverso gli States per ritrovare se stesso e il padre, un John Fante distrutto dal diabete e ormai agonizzante in un letto d’ospedale. Dietro questo “viaggio al termine della notte” di un’America neon…realista un’esistenza vissuta nell’illusione e nell’impotenza: l’illusione di chi è cresciuto in una Los Angeles cinematografica dove “il sole senza tramonto riempie il mondo di speranze” e l’impotenza dell’artista passionale che smette di fare quello che ama e comincia ad odiarsi”. Angeli a pezzi è il viaggio di chi, costretto a “far scivolare il mondo nel silenzio”, oltrepassa quella barriera che governa le pulsioni: di chi giunge a quel limite estremo in cui “le tenebre sono troppo estese per potersi difendere”. Ciò che rende unico Angeli a pezzi è poi la scrittura di Dan Fante: la sua naturalezza nel passare dal gelo di un fuoco tanto vitale quanto autodistruttivo ad una tenerezza che commuove. E con la magia dei poeti, da una riga all’altra, ci mostra la vita: ci dimostra come l’inferno asettico di quella normalità che chiamano vita quando viene raccontata, quando diventa arte, può trasformarsi nel segreto di essere (umani).
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Fin da quando ero bambino a Los Angeles e iniziai a farci caso, l’industria cinematografica di Hollywood conosce soltanto due forme di espressione: benedizione o condanna. Mio padre, John Fante, ha scritto sceneggiature per quarant’anni a Los Angeles. Non è diventato famoso per questo, ma ha sempre guadagnato bene e alla fine ha imparato a giocare a golf. Le opere di papà (quattro romanzi dimenticati) sono state ripubblicate dopo la sua morte e John Fante è diventato un’icona letteraria misconosciuta. Questa è la fama. In questo periodo dell’anno, con gli Oscar alle porte, a volte mi capita di pensare alla carriera cinematografica di mio padre e al suo dissidio con i Dieci di Hollywood. A causa del suo carattere schietto e combattivo, mio padre non ha mai avuto molti amici tra i suoi colleghi. Una volta infatti sul set di un film (Il bacio della pantera), durante un’imbarazzante discussione sulle revisioni del testo, mollò un pugno sul naso a Val Lewton. Per via di questo e di altri episodi, nonostante la comprovata esperienza di sceneggiatore, sul finire degli anni Quaranta John Fante non ebbe più lavoro, dopo essere stato impegnatissimo fin dal 1933. Il motivo? La risposta sono i Dieci di Hollywood. Questo gruppo di scrittori e registi che erano presumibilmente iscritti al Partito Comunista o filocomunisti, il 25 novembre 1947, il giorno dopo essere stati accusati di oltraggio al Congresso per aver rifiutato di deporre alla Commissione contro le attività antiamericane, furono messi sulla lista nera dell’industria cinematografica. Una madornale pagina nera della storia americana. Molta di questa gente non ha più lavorato a Hollywood. Tuttavia, malgrado il martirio e la finale canonizzazione dei Dieci di Hollywood, a conti fatti questo gruppo di grande risonanza ebbe una contropartita. Per dirla in termini attuali: discriminazione alla rovescia. John Fante fu colpito alla sprovvista. Il risultato di ciò che accadde in seguito alla carriera di mio padre fu che mia madre, Joyce Fante, iniziò a pagare di tasca propria le rate della casa e il cibo da mettere in tavola. Negli anni Quaranta, prima che Joseph McCarthy salisse al potere e che i politici iniziassero a vedere rossi dietro ogni macchina da scrivere portatile, se facevi lo sceneggiatore a Los Angeles e non potevi essere considerato un amico, uno che lavora nell’industria cinematografica per il bene comune, la tua carriera poteva misteriosamente finire. Se non eri tra i buoni eri tra i cattivi, e John Fante lo scoprì a proprie spese. Per continuare a ottenere buoni lavori come sceneggiatore, in quel periodo era estremamente importante fare le cose giuste, dire le cose giuste e apparire politicamente corretti negli studios e in società. Papà aveva amici da ambo le parti, ma a causa del suo scetticismo, non appena vedeva la minima forma di fanatismo e di intransigenza politica, prendeva le distanze. Pensava di avere tutti gli amici che voleva. Il vento era cambiato a Hollywood e il poco collaborativo John Fante no. Così, alcuni anni prima che la caccia alle streghe di Joseph McCarthy facesse proseliti, si sparsero voci su John Fante. A una riunione di quello che in seguito sarebbe divenuto il Sindacato degli sceneggiatori, per aver contestato una decisione di Lester Cole (colonna dei Dieci di Hollywood), mio padre fu bollato come fascista da Prince Lester davanti ai suoi colleghi e poco dopo non trovò più lavoro come sceneggiatore. Per alcuni anni riprese a scrivere romanzi, un passatempo molto più adatto al suo temperamento rispetto a questionare con il suo agente e tipi come Darryl Zanuck o Jack Wagner per farsi pagare le stesure supplementari. Ci volle un po’ prima che il periodo arido di John Fante finisse e che il vento politico di Hollywood divenisse un brutto tornado. Per alcuni anni l’occupazione giornaliera di mio padre furono le visite quindicinali alla fila dei disoccupati di Santa Monica, finché alla fine trovò un nuovo lavoro e agli inizi degli anni Cinquanta scrisse il film Un solo grande amore. A conti fatti con i Dieci di Hollywood non si scherzava. Non ci furono mezze misure. E così, quando quest’anno manderanno in onda gli Oscar, probabilmente non sarò incollato davanti al televisore. Non ne posso più dei maneggi del comitato di selezione dell’Academy Award, che è lo stesso di sempre e che, non diversamente dai famosi Dieci di Hollywood, spesso prende spudoratamente le sue decisioni basandosi sulle posizioni politiche dei personaggi coinvolti. Che ne direste di un Oscar per uno scrittore, regista o film basato semplicemente sul valore dei testi? Ecco qualcosa per cui spenderei volentieri quindici dollari.
Dan Fante