«Noi viviamo nella civiltà che loro hanno creato, ma in cuor nostro quel mondo selvaggio perdura. Viviamo ciò che sognarono e ciò che loro vissero, noi lo sogniamo.»
Iniziare con le parole di Whipple e un respiro di epicità.
Un refolo che soffia da Est, un tornado in divenire, o una qualsiasi forza della natura in grado di muovere zoccoli e stivali. Di vento, aria che scuote i polmoni, nel nuovo romanzo dell’autore fiorentino, ce n’è parecchio e c’è pure un territorio, la Maremma, che poco o nulla ha da invidiare ai deserti selvaggi delle pellicole western che tanto ci hanno saputo intrattenere, forgiando un mondo dal fascino intramontabile. Storie di uomini e animali in lotta con altri butteri e bestie che la fame e la sete di possesso hanno trasfigurato peggio delle stesse carcasse che si portano appresso.
«Si svegliò e impiegò un momento per capire di essere ancora a cavallo. L’animale procedeva ormai lentamente, facendo risuonare gli zoccoli pesanti sulla terra dura. Vide le montagne lontane e le immaginò accese dall’aurora. Poi più giù, di fronte a sé, su un basso poggio notò una luce. Era un bagliore pallido sull’orizzonte incerto, l’annuncio che il mondo intorno era scampato alla morte.»
Siamo in Maremma, si diceva poco fa, l’anno è il 1890 e delle morbide colline verdeggianti del paesaggio odierno non vi è traccia, così come di confini e neppure degli agglomerati di una nazione ancora incapace di riconoscersi se non per sparuti appezzamenti di riparo. Il territorio in cui si muovono i personaggi, infatti, ci appare sin da subito come un ambiente brullo, paludoso, inospitale, seppur tremendamente affascinante grazie alle puntuali e cinematografiche descrizioni con cui l’autore infarcisce l’opera.
Una terra in cui cavalcare fa rima con sopravvivere, ampi spazi dove l’eco di uno sparo si perde dietro l’ombra di una stalla fatiscente. Crescere in tale cornice è questione di coraggio e mente lucida, lo sa bene Donato, il più giovane dei protagonisti. Un ragazzo che fin dalle prime battute dimostra una destrezza non comune, la fama di aver allacciato un falco con un colpo di corda infatti lo precede e rende fiero suo padre, Giuseppe Penna, mandriano di poche parole e buon cuore che si adopera notte e giorno attorno al bestiame. Un padre e un figlio d’adozione, che fin da subito ci appaiono uniti da un legame che va oltre il vincolo del sangue: pochi riconoscimenti, molto senso del dovere, il lavoro duro di ogni giorno, ciò che serve per portare a casa il pane e sopravvivere agli assalti dei briganti. Assalti che, come da buona tradizione, non tarderanno a giungere per mano di Occhionero, malvivente la cui fama di razzie e malefatte ne precede il passo.
«Alla morte, ai morti, alla fine degli altri e alla fine di sé. Occhionero ci aveva pensato a lungo. Non aveva un piano, ma aveva un obiettivo. Aveva passato troppo poco tempo in gabbia per prestare peso ai carabinieri. Ma aveva speso una vita in sella e nei boschi, e sapeva cosa fosse la libertà. La gamba faceva male, ma aveva rimuginato molto più a lungo sulla ferita che aveva dentro. Ricordava il modo in cui era stato abbattuto da Penna e dal ragazzo. Era un pensiero che non riusciva a rimuovere, e che doveva affrontare. Evitarlo significava nascondersi. E la macchia era il rifugio per fuggire alla legge, ma la gente lui l’aveva sempre affrontata, perché tra la gente la legge era lui.»
Delinquenti, briganti, cowboy taciturni… Daniele Pasquini conosce e ama il genere, lo si intuisce fin dalle prime pagine ma chi scrive si sente in dovere di affermare sin da subito che Selvaggio Ovest non è un’epopea che vive di sole iconografie rodate.
L’abilità e la preparazione dello scrittore fiorentino si evincono dalle meticolose descrizioni topografiche, dall’uso di una gergalità puntualmente ricostruita, dai numerosi richiami e giochi di parole di cui il testo è ricco, dalle citazioni, più o meno esplicite, che il lettore si divertirà a scoprire o riscoprire (grazie anche alle dettagliate note che l’autore mette in chiusura del testo) ma soprattutto nel modo in cui ha saputo trattare il topos narrativo, trasportandolo in territorio nostrano, dal forte respiro contemporaneo ma senza perdere un briciolo dell’epicità che contraddistingue opere e pellicole che hanno fondato il genere.
Si percepiscono echi di Larry McMurtry e orizzonti cari alle frontiere del McCarthy più selvaggio, il tutto traslato in una prosa dinamica che ha l’abilità di mantenere costante un ritmo dal forte trasporto emotivo, anche grazie alla minuziosa caratterizzazione di personaggi e antagonisti. Se Rogo e Fiuto appaiono sin dalle prime battute viscide spalle i cui nomignoli ne precedono le malefatte, Occhionero, anche a fronte di una foliazione maggiore a lui dedicata, si rivela, nel procedere dell’avventura, un villain dalle ricercate sfaccettature, abile nei modi quanto nelle ingannevoli promesse.
Non da soli cowboy e briganti è trainata l’epopea di Pasquini, altre figure infatti subentrano a gamba tesa in una trama stratificata, finemente intrecciata, asciugata il giusto, in cui vi è spazio per l’oltreoceano che sconfina grazie all’incombenza del Wild West Show in quel di Firenze, preceduto da una serie di scambi epistolari in cui fa capolino anche la figura dello scrittore Mark Twain.
«Un attimo, e la campana suonò. Donato guardò il buttero davanti a sé, lo vide aprire il pugno. Nel palmo della mano due petali bianchi. Poi il giovane osservò il braccio: la rosa era ancora lì, spelacchiata, ma salda. Cavalcò fino a Marcello, che sollevò la mano destra verso il pubblico. Aveva lui la rosa rossa di Enea, la partita si era chiusa con una vittoria schiacciante.»
Non dev’esser stato semplice gestire una tale mole di informazioni e riferimenti senza scivolare nel didascalico o correndo il rischio di annacquare la trama con inutili lungaggini eppure, per chi scrive, l’impresa è riuscita alla perfezione.
Nell’Ovest sceneggiato da Pasquini ogni sottotrama guadagna il giusto respiro, l’abigeato che porterà all’arresto di Occhionero funge dunque soltanto da preambolo per una serie di eventi paralleli che permetteranno al lettore di entrare in sintonia con le gesta del carabiniere Orsolini, Alce Nero, spalla del carismatico Buffalo Bill ma soprattutto di Gilda, figlia di un carbonaio, costretta alla prostituzione e scampata a una delle scene più cruente del romanzo, il cui dolore per l’abuso saprà presto tramutarsi in corazza per un riscatto plasmato nel sangue.
Di Pasquini avevo già letto il precedente Un naufragio, apprezzandone il piglio ironico e l’anima genuinamente pop ma sento di poter affermare con estrema tranquillità che, con Selvaggio Ovest, l’autore ci consegna il suo romanzo della maturità.
Un’opera di spessore granitico e grande consapevolezza stilistica che rende tributo al genere fornendone una rilettura in chiave contemporanea, senza rinunciare alla lore leggendaria da cui proviene.
Citando le parole del Colonnello William Frederick Cody, alias Buffalo Bill:
«Lei sa riconoscere una buona storia, e ancor più sa come raccontarla».
Stefano Bonazzi
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Selvaggio Ovest
Daniele Pasquini
NNE
18,00 euro — 355 pagine