“Raccontare l’apatia con garbo ed umorismo. La sconfitta della noia è come l’estasi istantanea in ogni atomo. Se sei immune alla noia, non c’è nulla che tu non possa fare”.
Giudicare l’opera di David Foster Wallace separandola dalla pulsione di morte che abitava la sua mente e che alla fine lo ha condotto al suicidio, è impossibile. Il realismo isterico della sua scrittura, vertiginosa, torrenziale, lo sguardo malincomico – malincomico con la M – sulle vicende umane affrescate nelle pagine dei pochi romanzi pubblicati sono indissolubilmente legati al noto malessere e a quel gesto risolutorio, forse inaspettato. La sera del 12 settembre del 2008, nella sua casa di Claremont, in California, pare che Wallace avesse pianificato tutto: scritto due righe di commiato alla moglie Karen, salutato i cani Jeeves e Drones, e ordinato negli scatoloni giù in garage i manoscritti del romanzo al quale stava lavorando già da parecchi anni. Un librone di cinquemila pagine che si sarebbero ridotte a poco più di mille, aveva confidato a Jonathan Franzen. Per completare questo librone Wallace aveva rinunciato a convegni, conferenze stampa e uscite con gli amici. Dopo il successo di Infinite Jest, le aspettative dei lettori erano altissime.
Un impegno troppo gravoso. E a chi come lo stesso Franzen si preoccupava negli ultimi tempi del suo stato di salute e gli chiedeva come stai, lui alla sua maniera rispondeva: “mi sento un po’ peculiare”. I pezzi del romanzo che Wallace stava scrivendo vennero successivamente assemblati dal suo editor, Michael Pietsch, in un libro di circa 800 pagine, pubblicato col titolo de Il Re Pallido. E’ l’ultimo atto, il testamento inconsapevole di un genio compreso, capace di ricodificare la grammatica della narrativa nordamericana e non solo quella, completando l’opera di altri avanguardisti: John Barth, Don DeLillo, Thomas Pynchon. Incontrai Wallace nel giugno del 2006, a Capri, in occasione di un celebre appuntamento letterario organizzato sull’isola da Antonio Monda. Era la prima edizione. L’immancabile bandana, t-shirt rossa con una scritta, uno stravagante bermuda a vita alta, l’aria svampita di chi è stato trascinato controvoglia in un luogo troppo esotico per le sue abitudini: l’aspetto di Wallace era quello di un nerd che aveva svoltato. Lui e Jonathan Franzen, amici e rivali, confusi tra la folla che neppure li riconosceva, si aggiravano sulla piazzetta come turisti anonimi. A distanza di anni, ritrovo quelle immagini nella mia memoria e sul web, confuse tra mille altre evocate dai suoi scritti: appunti di viaggio, racconti, romanzi, interviste. Leggere Wallace è come sentirsi spalancare gli occhi, e quando sfogliamo i suoi libri, per un certo numero di pagine ci piace immaginare, come ha scritto qualcuno, di essere lui, di essere David Foster Wallace.
Angelo Cennamo