La Volpe, sempre lei, negli anni, nei secoli ha ispirato scrittori e poeti, ha dato origine a saghe e leggende. Esopo la pone a confronto con un grappolo d’uva inavvicinabile: «Nondum matura est» e ci regala una scusa per tutto ciò che non riusciremo a raggiungere.
Montale invece raggiunge la sua Volpe, che ha 23 anni quando lui ne ha più di cinquanta. E’ Luisa Spaziani, poetessa che lui chiamerà volpe per il colore fulvo dei capelli e gli occhi verdi, magnetici. Montale amava molto le citazioni animali, la donna della sua vita sarà la “mosca”, e la stessa Spaziani in un’altra poesia sarà “l’anguilla”. Ho conosciuto la Spaziani, lontana da quei mitici tempi, e lontana anche dalla snellezza che la faceva volpe e anguilla, ma questo è il lavoro del tempo, soltanto i versi dei poeti non si guastano mai.
Le letterature cinese, coreana, giapponese, dedicano un ampio capitolo alla volpe, il genere in Giappone viene chiamato: Kitsunetsuki (kitsune-tsuki) che significa letteralmente “posseduto dalla volpe”: si credeva che una volpe fosse in grado di possedere le persone, generalmente giovani donne, entrando nel corpo della vittima attraverso un’unghia o il petto per nutrirsi della sua forza vitale, e vivendo all’interno del corpo senza relazione con l’anfitrione.
Ai giorni nostri il grande e compianto Hendrix dedica una canzone a una donna che lo affascina, ma sposerà un altro. Per lui sarà comunque la sua “donna Volpe”.
Questo un breve escursus sull’ animale che intorno al 1930 ispirerà il romanzo di Adelphi, che mi riporta a molte stagioni passate, a un regalo ricevuto da Giancarlo che a suo tempo ispirò anche me, per una serie di dipinti, raffiguranti figure femminili misteriose avvolte in colli di volpe, volpi con sguardo enigmatico, donne col muso di volpe. Non riuscivo a liberarmi dall’incanto del racconto, forse perché è simile alla metamorfosi che cerco e ho cercato sperando che la vita, almeno una volta, mi mandi una conferma. Per me tutto è possibile, tutto può accadere, come accade nel lungo racconto di Garnett.
Riavere il libro prima della partenza è stato un segno, l’ho riletto con un po’ di commozione anche se ora non mi ha più incantata, mentre vivo ancora dell’incanto del ricordo.
Garnett è uno “scapestrato”, così lo definisce nel 1930 Virginia Woolf in una lettera al nipote Quentin. Fa parte del gruppo di “Bloomsbury” che riunisce scrittori, pittori, liberi pensatori smaniosi di affermarsi, liberi dai lacci vittoriani dell’asfissiante e asfittica società inglese. Vivono, scrivono, amano in un continuo sviluppo di emozioni, di loro restano gli splendidi ritratti di Vanessa Bell, sorella di Virginia e ispiratrice di tanta pittura pre-raffaellita, i romanzi di Virginia e le cronache scandalose di vite al disopra delle convenzioni.
David Garnett dedica questo romanzo a un suo antico amante, Duncan Grant, di cui sposerà più tardi la figlia che costui ha avuto da Vanessa, riconosciuta comunque dal legittimo marito. Insomma, chi ha detto: niente sesso siamo inglesi?
Un signore e la sua legittima consorte passeggiano per la campagna, è stagione di caccia, (alla volpe of course), e Silvia, la giovane sposa adorata, vive l’evento con angoscia crescente. E’ una donna molto bella, giovane, cresciuta da una nutrice che le ha instillato solidi principi e ha tentato di ovviare alla sua natura schiva, a tratti selvaggia. Silvia ha perso la mamma, ha avuto il padre lungamente ammalato, vive in campagna con l’unica saltuaria compagnia di uno zio che ama sparare ai beccaccini.
Da qui forse il suo carattere selvatico.
Quel giorno, il giorno dell’evento inspiegabile, Mister Tebrick e Silvia raggiungono la collina sopra Rylands, si sentono latrare i segugi e risuona il corno, la muta sta per raggiungere la collina ma, mentre Tebrick è ansioso di assistere all’epilogo, Silvia si divincola, lancia un grido e scompare. Al suo posto una piccola volpe rosa, gli stessi colori fulvi della donna, due grandi occhi spaventati e un piccolo corpo che chiede protezione. Ha inizio così la favola amara di questa trasformazione misteriosa e inspiegabile, che costringerà il povero Tebrick ad adattare la sua vita a quella di una volpe che è stata donna, ricorda di essere donna ma poco alla volta cede al richiamo della sua nuova natura selvatica. Cambierà casa, licenzierà i domestici, ucciderà i cani e assisterà con amore disperato alla inesorabile mutazione di Silvia sempre più lontana da lui, sempre più volpe, sempre meno umana. Intorno i paesani mormorano, ipotizzano una crisi coniugale, attribuiscono l’inselvatichimento di lui a una fuga della moglie; soltanto la balia immagina, soltanto lei capisce ma dovrà arrendersi all’evidenza: la sua Silvia è un’animale selvaggio che anela alla libertà, che esige di vivere come un animale. Indomito e innamorato Tebrick resiste, ma non può impedire che la volpe un bel giorno scelga la libertà, e ricompaia dopo mesi con una cucciolata di bellissimi volpini, frutto di tradimento, ma lui perdonerà e darà ai piccoli amore, prospetterà un futuro umanizzandoli, tanto calato com’è nella sua follia che lo obbliga e considerare naturale un evento così bizzarro.
La tragedia incombe, è l’unica fine possibile: ancora una caccia, i cavalieri al galoppo, i corni che risuonano nella valle ma quando Tebrick tenta di dare rifugio alla piccola volpe rossa che torna terrorizzata in cerca d’aiuto è lui stesso travolto dai segugi che lo feriranno a morte e sbraneranno Silvia, il cui grido finale sarà umano, e i cacciatori lo ricorderanno con stupore nei loro racconti.
Favola amara, parabola di come l’amore possa mutare, di come si possa continuare ad amare contro tutte le apparenze, scritta con leggerezza, con l’ironia che distingue lo spirito british, ma alla fine con tanta pietà; quel grido di donna che si rivela nella morte suggerisce forse a un ripensamento, tardivo ormai, la muta dei cani non lascia scampo e soltanto la morte suggella l’amore.
Carla Tolomeo – Capannori – 21 agosto 2020