Devastanti, finiscono di scorrerti tra le dita le ultime pagine di questo “Dove tende la luce” di David Joy (2023, Jimenez Edizioni, pp 239, € 19) e non puoi fare a meno di chiederti: ma davvero si può esordire nella narrativa con un romanzo di tale portata?
Lo stupore nasce spontaneo fin dalla lettura del primo capitolo del libro, dove la precisa, rigorosa economicità stilistica dello scrittore americano fa immediatamente un eccezionale sfoggio di sé: mentre, infatti, conosciamo il protagonista, Jacob McNeeley, attraverso rapide pennellate che delineano con bruciante, onnicomprensiva chiarezza il suo universo interiore, nello stesso tempo veniamo altrettanto istantaneamente proiettati in una dimensione geografica e “sentimentale” che non ammette fraintendimenti. Siamo in Appalachia, in una delle province più difficili degli Stati Uniti, non c’è nessun dubbio in proposito, non può davvero esserci. E, soprattutto, non c’è alcuno spazio per le mille luci e per le promesse di gloria ammiccanti dalle coste est e ovest del Paese, da quelle parti. Più che un posto da duri (di cui pure, come vedremo, il romanzo è pieno), è un posto per “induriti”, per gente abituata fin dalla gioventù (Jacob è un ragazzo in età da college) a fare i conti con un contesto sociale e relazionale che non consente voli pindarici, ma abitua subito, incontrovertibilmente al peggio. Tutto è raccontato da Joy senza “cappelli” rassicuranti, senza prodromi che in qualche modo ammorbidiscano un ingresso brutale nella profonda, disperata cupezza di questa storia, che, da questo momento in poi, si sviluppa -anzi, si compie, verrebbe da dire- inesorabilmente. E la scelta di una narrazione autodiegetica, con la decisione di affidare il punto di vista sui fatti che si svolgono al solo Jacob, lungi dal privare di peso o di caratterizzazione tutti gli altri personaggi, contribuisce a tenere sempre ben salde le redini logiche ed emotive di un libro che non si perde mai in un ghirigoro “autoriale”, che non rallenta mai in una pausa di compiaciuta “bravura”, ma procede spedito, onesto, implacabile, in un vortice di naturale, sempre credibilissimo smarrimento che inghiotte il povero Jacob e crea buchi nel cuore di chi legge. Senza tuttavia -ed è in questo che risiede la magia di Jacob e, dunque, di Joy- privarlo mai di un’umanità tutta sua, fragilissima e, a suo modo, incorrotta, in grado di commuovere fino alla periferia del cuore.
Per chi già ha avuto modo di avere tra le mani e di ammirare l’eccellente “Queste montagne bruciano”, questo debutto del suo creatore non farà che confermare l’impressione (oso sperare chiara, chiarissima) di trovarsi di fronte ad una voce tra le più significative e struggenti della nuova letteratura americana. Chi, invece, avrà la ventura (perché di questo si tratta) di incappare per la prima volta nel vincitore dell’Hammet Prize 2021, si troverà a constatare l’autentica epifania di un talento che, si spera, avrà ancora modo di regalarci altri grandi capolavori nei decenni a seguire.
Bellissimo. E soprattutto: non ne uscirete indenni!
nel quale la presentazione del suo protagonista, Jacob McNeeley, costituisce un autentico pezzo di bravura ed economicità della parola: pochi, essenziali colpi di penna, fanno sì che questo ragazzo, in età da college ma già definitivamente fuori da un qualsivoglia percorso scolastico, si consegni senza
il protagonista, nonostante sia un giovane in età da college e, dunque, potenzialmente legittimato quantomeno a sognare un futuro diverso dal presente che sta vivendo, ci si presenta attraverso una disarmante, brutale messa a fuoco della sua condizione di vinto che non ammette “prediche” ottimistiche d’occasione o (d’accatto): per lui, già chiamatosi fuori dain questo lembo dell’Appalachia così lontano dalle mille luci delle due coste est e ovest dell’America, non c’è già più nulla. È impossibile non credere
Per chi ha già familiarizzato con questo (grande) scrittore americano attraverso il notevolissimo “Queste montagne bruciano”, forse lo stupore avrebbe potuto essere minore, ma, nondimeno,
Domenico Paris