Da oggi è in libreria la raccolta di saggi di David Mamet I Tre usi del coltello, Minimum Fax 2023, pp. 370, € 20,00 tradotto da Flavia Abbinante (Dirigere un film), Andreina Lombardi Bom (I tre usi del coltello) e Bruna Tortorella (Vero e falso).
David Mamet ritiene che la tendenza a drammatizzare sia essenziale alla natura umana, che creiamo drammi da ogni cosa, dal tempo di oggi alle elezioni del prossimo anno. Ma la massima espressione di questa tendenza rimane il teatro.
Con un repertorio culturale che comprende Shakespeare, Bretcht e Ibsen, Morte di un commesso viaggiatore e Bad Day at Black Rock, Mamet ci mostra come distinguere il vero dramma dalle sue false varianti. Prende in considerazione l’impossibile progressione tra un atto e l’altro e la misteriosa funzione del soliloquio come fonte di rivelazione.
I Tre usi del coltello, è un elettrizzante trattato sull’arte drammaturgica che è anche un’opera straordinariamente originale di filosofia morale ed estetica: “La tragedia è una celebrazione non del nostro trionfo conclusivo ma della verità; non è una vittoria ma un’accettazione. Molto del suo potere calmante proviene, ancora una volta, dall’operazione descritta da Shakespeare: quando il rimedio è esaurito, lo è anche la pena”.
In Dirigere un film secondo David Mamet, un regista deve soprattutto pensare visivamente. La maggior parte di questo saggio è scritta in forma di dialogo e si basa sui corsi di cinema che l’autore ha tenuto alla Columbia University.
In Vero e falso David Mamet dice agli aspiranti attori ciò che hanno davvero bisogno di sapere. Come giudicare il ruolo, affrontare la parte, lavorare con il drammaturgo; il modo giusto di affrontare i provini e l’approccio corretto agli agenti e al mondo del lavoro in generale.
Vero e falso offre una guida inestimabile alla professione di attore.
Carlo Tortarolo
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I problemi del secondo atto
I problemi della seconda parte non sono i problemi della prima parte.
Il viaggio di andata sembra sempre più lungo del viaggio di ritorno. È qualcosa di nuovo, ed esige una vigorosa concentrazione da parte nostra mentre cerchiamo indicazioni, caratteristiche, scorciatoie. Al ritorno siamo maggiormente in grado di separare l’essenziale da ciò che non è pertinente; la nostra concentrazione si è focalizzata sull’obiettivo.
Così la progressione verso il punto culminante, lo scioglimento, la conclusione accelera il ritmo. Ci sono stati forniti i fatti e la nostra attenzione si è concentrata. Adesso ci resta solo da segnalare la nostra avanzata verso l’obiettivo e l’intrusione sporadica dell’ostacolo insolito, dell’insolito mutamento nella trama.
Mentre il pubblico impegna o presta la sua attenzione, è facile inserire qualche elemento non pertinente: il pubblico lo accetterà come essenziale fintanto che non sarà stato dimostrato il contrario (e quel momento arriverà dopo la fine della rappresentazione, mentre la gente sta tornando a casa – e ne avvertirà un tale sollievo che probabilmente sarà più che disposta a chiudere un occhio).
George M. Cohan, uno dei padri del musical di Broadway, ha così descritto quello che egli giustamente interpretava come un primo atto di scarso interesse: il protagonista entra in scena, si toglie una pistola dalla tasca della giacca, si guarda intorno per assicurarsi che nessuno lo veda e ripone la pistola in un cassetto della scrivania.
Questa introduzione di un elemento non pertinente è insolita nel primo atto, quando la luna di miele fra autore e pubblico è ancora in corso (è stato spesso osservato che chiunque può scrivere un buon primo atto); ma non è affatto infrequente nel secondo atto. (Una storiella dalla Tavola Rotonda dell’Algonquin: due tizi sono seduti a chiacchierare. Uno dice: «Come va con la commedia?» L’altro risponde: «Ho dei problemi con il secondo atto». Tutti ridono. «Naturale che tu abbia problemi con il secondo atto!»)
Quando si alza il sipario, la vostra attenzione è ben desta. Quindi, per un po’, noi drammaturghi non abbiamo bisogno di fare niente. Più avanti, o la trama si metterà in moto o il pubblico comincerà a sbadigliare e a mangiare pop-corn. Capita molto spesso che nel secondo atto di una commedia venga introdotto un elemento non pertinente.
Il pubblico vuole essere incuriosito, fuorviato, talvolta deluso, in modo da poter essere alla fine appagato. Pertanto il pubblico ha bisogno che il secondo atto si chiuda con una domanda.
Questo va benissimo per il pubblico, dato che non ha bisogno di sapere, a questo punto, quale sia la risposta a quella domanda. Ma l’artista deve saperlo. «Oh, signore», dice l’artista, arrivato ora a un terzo dello svolgimento, «eccomi qui senza la determinazione e l’energia dell’inizio e senza lo scatto di energia che deriva dall’intravedere una fine… eccomi qua, insomma, nel bel mezzo».
Oppure l’artista dice: «Ho tutto ben chiaro qui in testa, davvero volete costringermi a metterlo per iscritto?» Le soluzioni al problema dell’atto intermedio sono il banco di prova del personaggio.
Se gli artisti si proclamano superiori ai loro protagonisti, il loro compito diventa il più semplice del mondo: fabbricano una complicazione, come Cohan che ficca una pistola nel cassetto.
Fare in modo che la fine sia nascosta nell’inizio (che è la più grande virtù che un dramma possa avere), tuttavia, è un tantino più difficile. Significa che nel periodo intermedio quello che prima era insospettato deve venire a galla; e, venendo a galla, deve far sprofondare il protagonista (e l’artista) nella palude della disperazione: «Ero preparato a qualunque cosa, ma non a questo». È da questa disperazione che deve scaturire la determinazione necessaria per condurre a termine il viaggio.
Nella sua analisi dei miti mondiali, Joseph Campbell chiama questo periodo «nel ventre della bestia» – il momento che non è l’inizio e non è la fine, il momento in cui l’artista e il protagonista dubitano di loro stessi e vorrebbero che il viaggio non fosse mai cominciato. Questo è lo sfondo sul quale viene preparato l’assalto all’obiettivo finale: il momento in cui l’obiettivo iniziale si trasforma in un obiettivo superiore, nel quale si mette in luce la vera natura della lotta.
Nella vita dell’artista questo è il periodo a cui si pensa inevitabilmente come ai «bei tempi andati». È il momento della lotta.
Tutti abbiamo un mito e tutti viviamo seguendo un mito. È quello per cui viviamo. Parte del viaggio dell’eroe è il fatto che l’eroe (artista/protagonista) deve cambiare completamente la sua cognizione delle cose, sia mediante la forza delle circostanze (come avviene sovente nel dramma) sia mediante la forza di volontà (come avviene sovente nella tragedia). L’eroe deve rinnovare il suo modo di pensare il mondo. E questo rinnovamento può condurre a una grandiosa opera d’arte.
Tolstoj ha scritto che se non ci si sottopone a questo riesame, a questa revisione, intorno ai trent’anni, il resto della propria vita sarà sterile dal punto di vista intellettuale. Noi definiamo giustamente l’avvento di questo fenomeno «crisi di mezza età» e ci sforziamo di superarlo in modo da poter tornare alla nostra condizione di prima meno inquieta, credendo che questa condizione si frapponga tra noi e qualsiasi possibilità di essere felici o di avere successo. Al contrario, tuttavia, questa condizione è l’inizio di una grande opportunità. Tolstoj ipotizzava che si trattasse dell’opportunità di cambiare il mito seguendo il quale si vive; di ripensare ogni cosa; di chiedere: «Qual è la natura del mondo?»
Il periodo intermedio, il secondo atto, il groviglio della «crisi di mezza età» è il periodo del sogno latente.
Nel primo atto si dà vita al sogno manifesto. L’eroe si sceglie/si affida a una lotta: creare una Patria Ebraica, trovare la causa della peste a Tebe, liberare i ragazzi di Scottsboro.
Nel periodo intermedio il nobile obiettivo è ricaduto in quello che sembra essere un lavoro ingrato, banale, meccanico e ordinario: adesso non stiamo cercando di fondare la Patria Ebraica, ma stiamo negoziando un contratto con una cartoleria che ci fornisca la carta su cui scrivere lettere per la raccolta di fondi.
Adesso non stiamo cercando di decidere come vivere in un mondo orbato di nostro padre; stiamo cercando di sbarazzarci di due impertinenti leccapiedi di nome Rosencrantz e Guildenstern.
Come dice la famosa battuta: è difficile ricordare che ti eri proposto di bonificare la palude, quando ti trovi immerso fino al culo tra gli alligatori. E questo è il problema del secondo atto.
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David Mamet I tre usi del coltello. Saggi e lezioni sul cinema
© David Mamet, 1991, 1997, 1998
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