Benvenuto su Satisfiction   Click to listen highlighted text! Benvenuto su Satisfiction

Davide Musso Anteprima. Di cosa abbiamo paura

Home / Anteprime / Davide Musso Anteprima. Di cosa abbiamo paura

Esce oggi per Il Castoro editore Di cosa abbiamo paura (pagg. 176, € 14,00), primo romanzo per Young Adults di Davide Musso.

Musso, editor per Terre di mezzo editore e prima ancora giornalista, ha esordito nel 2007 con la raccolta di racconti brevi Vita di traverso dove tratteggia storie di emarginazione in modo assolutamente non retorico.

In queste pagine, nel racconto delle esistenze di Michi e Pablo, alcuni elementi sembrano ritornare.

Prima fra tutte l’idea della periferia, qui disegnata come luogo fatiscente e degradato, pullulante di vite ai margini. Esistenze senza sogni che investono gli adulti come i ragazzi.

Nessuno pare cercare un riscatto. Nemmeno Michi, nemmeno la banda di Tommy, tutti sedicenni che spendono il loro tempo in un vuoto di intenti.

A unirli, la residenza negli appartamenti delle case rosse, «due bubboni viola ai confini della città» divisi da un cortile. Il cortile inoltre è «una gabbia senza sbarre», che contiene e divide chi abita i due stabili: di qua ci sono gli autoctoni, di là gli “arabi” , gli stranieri.

Poi arriva Pablo – che viene dall’Ecuador per ricongiungersi con la madre e che non ha intenzione di sottostare alle leggi del gruppo – e gli equilibri nel corso dell’estate cambiano.

Cambiano almeno per Michi che, durante l’estate in cui si svolge la storia, si avvicina a Pablo con diffidenza ricambiata, capendo lentamente che è possibile vivere in un altro modo, che il destino non è mai segnato.

Scritto con stile asciutto Di cosa abbiamo paura alterna nei capitoli il punto di vista di Michi e di Pablo, con altri pochi capitoli in cui Musso utilizza un narratore in terza persona. Una costruzione che indica come l’anima del romanzo sia data proprio dai personaggi che si muovono nelle pagine.

Ognuno di loro presenta una stratificazione psicologica che li rende portatori di contraddizioni, perciò fragili, umani e proprio per questo capaci di decidere il loro futuro. Non solo. Sono, Michi e Pablo in testa, portatori di una parola cruda quanto onesta, diretta, impossibile da eludere.

Sergio Rotino

#

PABLO

Il cortile è una gabbia senza sbarre. Sotto i portici del secondo palazzo ci sono un kebabbaro, una lavanderia, una pizzeria egiziana, un internet point da cui puoi anche mandare i soldi a chi hai lasciato al tuo Paese (mezz’ora un euro. Non si fa credito a nessuno dice il cartello all’entrata). Al primo, invece, un minimarket, un ferramenta e, accanto al locale immondizie, il Bar Italia, un localino angusto gestito da un cinese triste, con i tavoli in fòrmica colorata e i vecchi che urlano per l’ennesima partita a carte, mentre l’odore dolciastro della decomposizione si mescola a quello rancido del vino. Infine, dall’altra parte del cortile, ci stanno solo gli spacciatori alle altalene e i tossici in fila davanti all’ambulatorio.

Insomma, non manca proprio nulla. E se rispetti le regole, se te ne stai dalla tua parte, se vai dove possono andare “gli arabi” come te, nessuno ti darà fastidio. Ma queste cose non me le hanno ancora spiegate.

Esco di casa all’alba con lo zainetto in spalla. Una luce biancastra avvolge il cortile nel silenzio. Non avevo mai sentito un silenzio così. A Quito la strada era un fiume di rabbia, non si fermava mai.

Prendo il taccuino e schizzo a matita gli alberi grigi, le panchine vuote, cerco di catturare quella luce appiccicosa. Strappo la pagina, la appallottolo, la getto a terra. Ricomincio. Le colonne del porticato sono una foresta di cemento. I due palazzi mostri dai mille occhi, alti fino al cielo. Anzi no, guardiani di pietra che non dor- mono mai. Strappo la pagina, di nuovo. Mi siedo sulla mezzaluna, accendo una sigaretta e sfoglio il taccuino a ritroso: la sala d’attesa al mio gate quando sono partito (un bambino con una palla, una vecchia addormentata sopra un sacco di juta); il profilo severo del Pichincha, il vulcano che mi accompagna lungo il tragitto in autobus fino all’aeroporto; gli occhi di Lía, lucidi come biglie di vetro mentre mi abbraccia.

Un ultimo tiro, schiaccio il mozzicone e torno sotto i portici del secondo palazzo. Sfioro i pilastri grigi ricoperti di firme e scarabocchi, evito le merde dei cani come in un percorso a ostacoli.

Mi fermo davanti a una strana costruzione, una specie di fortino rialzato proprio accanto all’ingresso principale. Tre gradini e sono dentro, panche di pietra corrono lungo il perimetro dei muri. Sulla destra noto uno scatolone che qualcuno deve aver dimenticato lì. Mi avvicino. L’interno è foderato con un vecchio maglione e in un angolo tre gatti minuscoli se ne stanno appiccicati l’uno all’altro: uno nero, uno rossiccio, uno a chiazze. Prendo quello rosso, è così piccolo che riesco a tenerlo sul palmo di una mano. Ha gli occhi impiastricciati di muco giallastro, il cordone ombelicale scuro e secco ancora attaccato al ventre. Non smette di tremare.

«Ehi, tigre», sussurro. «Va tutto bene.»

Gli accarezzo la testolina con un dito. Faccio per infilarlo nello zaino, poi ci ripenso e lo adagio sul maglione accanto ai fratelli. Tiro fuori il verde iguana, la mia bomboletta preferita, e con un unico movimento del polso scrivo el chino sulle mattonelle del selciato. Le lettere scintillano come sangue alieno.

Torno indietro, a casa trovo un biglietto di mia madre attaccato al frigo con un pezzo di nastro adesivo: «Ci vediamo più tardi».

Prendo la busta del pane, un pezzo di formaggio, la bottiglia del latte. Mangio in piedi, mastico lentamente. Fuori dalla finestra gli alberi nascondono la vista dell’autostrada, ma riesco a sentirla in lontananza.

Al di là della parete, i vicini continuano a litigare. Sono giorni che vanno avanti. La voce della donna è stridula, insopportabile, quella dell’uomo un sottofondo difficile da distinguere.

C’è qualcuno in cortile. Mi accosto alla finestra, ma non riesco a vedere bene. Salgo sul tetto e guardo di sotto: alla mezzaluna c’è il ragazzo con il ciuffo blu, si china a raccogliere qualcosa da terra, dei fogli accartocciati. Li apre, li appoggia sulla panchina, li spiana con una mano. Li osserva per un istante, poi li ripiega in quattro e se li infila nella tasca dei jeans. Mi volto di scatto, mi precipito giù dalle scale, mi sembra di volare. In un attimo sono alla mezzaluna, ma quando arrivo non c’è più nessuno.

MICHI

«Perché mi hai lasciata andare?» Mi sveglio di soprassalto, ho i brividi ma sto sudando. Non capisco che ore sono, non riesco a vedere niente. Fuori dev’essere ancora buio, a meno che quella sce- ma di mia sorella non abbia tirato giù le tapparelle come al solito. Lo sa che così mi fa soffocare, ma se ne frega e prima di andare a dormire deve sempre chiudere tutto. «Dovessero venire i ladri…», dice. Come se qui ci fosse qualcosa da rubare.

Perché mi hai lasciata andare?

Ancora quella voce. Cerco a tentoni l’interruttore ma non lo trovo. Provo con il cellulare: è proprio accanto a me, peccato che sia completamente scarico. Maledizione. Ieri notte con tutte quelle birre che ci ha rifilato Tommy è già un miracolo che abbia trovato la porta della mia stanza. Ho fatto giusto in tempo a raggiungere il letto e ho perso i sensi con ancora i vestiti addosso. Mi lascio rotolare giù dal materasso, raggiungo la porta a quattro zampe. La spalanco e la luce è un muro bianco, non riesco a vedere niente. Mi stropiccio gli occhi, li apro quel tanto che basta e mi volto: la stanza è vuota. Ovviamente.

L’ho sognata di nuovo.

Quando avevo quattro anni ne facevo un altro di sogno, un incubo: ero nel mio letto, dormivo, e all’improvviso qualcuno iniziava a schiacciarmi la testa, sempre più forte, sempre più forte. Non capivo chi fosse, non riuscivo a vederlo, percepivo solo la sua presenza malvagia, la forza assoluta che da un momento all’altro mi avrebbe spappolato il cranio come un melone troppo maturo. Provavo a urlare, cercavo di alzarmi e scappare, ma la gola era muta, il corpo paralizzato. Poi finalmente mi svegliavo e correvo nel letto dai miei. Non so perché, ma era come se per tutto il tempo sapessi che, per quanto spaventoso, non era vero, e che prima o poi sarebbe finito.

Questa, invece, è tutta un’altra storia. La voce è dentro la mia testa e quando mi sveglio è ancora qui, su questo non ci piove.

La stanza di mia sorella è chiusa. Faccio per aprirla, ma poi penso che, se c’è, quasi di sicuro non è da sola, e il rimbambito del suo ragazzo evito volentieri di vederlo di nuovo in mutande.

«Con quella lì non si può mai stare tranquilli.» Mi sembra ancora di sentire mia madre.

In bagno mi butto acqua fredda sulla faccia, rovisto tra le magliette sporche abbandonate sopra la lavatrice, me ne infilo una più o meno decente, metto in carica il telefono e scendo di sotto.

Il bangla market è perfetto per la colazione: telecamera di sicurezza fuori uso, nessun sistema antitaccheggio e Rashid in cassa. Grasso e svogliato, non alzerebbe il culo dallo sgabello neanche con una pistola puntata alla tempia. Il negozio è lungo e stretto, illuminato male. Nessuna finestra, macchie di muffa alle pareti. Nell’aria collosa si mescolano un milione di odori: sacchi di spe- zie, cassette di pesche, manghi e banane troppo maturi, polli anemici adagiati su un vecchio tavolo di legno. Punto lo scaffale dei biscotti, me ne infilo una confezione nei tasconi laterali dei jeans insieme a due barrette al caramello. Prendo una bottiglia di latte al cioccolato dal frigo, la mostro al ciccione che sonnecchia dietro al registratore di cassa, lui batte un euro e settanta, io gli piazzo davanti una manciata di monetine ed esco senza aspettare che le conti.

La mezzaluna è all’ombra ma già non si respira. Mi passo una mano tra i capelli fradici di sudore, mi tiro il ciuffo all’indietro. Apro il latte e ne butto giù una lunga sorsata. Due biscotti, un morso alla barretta. Un biscotto, un sorso di latte.

Ripenso a quella voce che conosco fin troppo bene (Perché mi hai lasciata andare?), la voce di mia madre.

Sto per tornarmene di sopra a recuperare il telefono quando l’occhio mi cade su due fogli appallottolati a terra. Li raccolgo, li apro sulla panchina, cerco di stirare le pieghe con la mano. I contorni a matita del primo e del secondo palazzo, e i rami degli alberi come le dita nodose di un vecchio. Mi chiedo chi sia l’autore di questi capolavori… Mi guardo intorno, qualcosa si muove dietro una finestra del secondo palazzo. Ripiego i fogli, me li infilo in tasca, salgo sul tetto alla velocità della luce. Mi avvicino al parapetto, mi sporgo quel tanto che basta ed eccolo: quello nuovo che rovista intorno alla mezzaluna come una bestia tra i rifiuti.

PABLO

In casa non si respira, continuo a rigirarmi sul materasso fradicio. Me ne vado sul tetto a prendere un po’ d’aria. Quassù si sta meglio, mi pare. E almeno vedo qualcosa che non è il soffitto di camera mia.

La città è un tremolio di luci distanti, non si addormenta mai del tutto.

Mi rollo una sigaretta, aspiro a fondo, trattengo nei polmoni. Ci vorrebbe qualcosa di buono da fumare adesso, non lo schifo che rifilavo ai turisti sulla Mariscal. Ci vorrebbe Carlos seduto contro il parapetto a fantasti- care sul futuro. Cambiare vita, partire. Per dove? «Non importa», diceva, «va bene tutto». Ma lui non c’è più, la roba buona ora non so dove trovarla e non è vero che un posto vale l’altro.

Prima vedo la brace che fluttua nel vuoto del palazzo di fronte, poi distinguo una figurina nera contro il cielo nero. Il tetto del primo palazzo non è poi tanto lontano, ma è troppo buio per esserne certi: però dev’essere lui, l’ho già visto lassù di vedetta giorni fa. Mi spiava dall’alto mentre esploravo il cortile e pensavo: Ma dove sono finiti tutti? Questo posto sembra un deserto.

Ci fronteggiamo a distanza, io e il ragazzo con il ciuffo blu. È ovvio che anche lui mi ha visto. Succede una notte, poi due. Poi tre. Alla quarta è un guanto di sfida. Chi ti credi di essere?, penso. Ciuffo Blu getta il mozzicone come in un film americano, indice contro pollice e la lucciola vola di sotto, la caduta amplificata da sette piani di vuoto, la debole scia di luce, lo sfri- golio muto.

Questo significa: Fatti sotto se hai il coraggio.

Allora scendo con calma, attraverso il cortile, passo davanti alla mezzaluna, spingo la porta a vetri del primo palazzo e salgo. Il tetto lassù non ha proprio nulla di particolare, è uguale al mio, forse il cielo è un po’ più vicino e davanti non c’è niente che copre la vista. Ma anche qui l’aria sa di catrame molle sotto le scarpe, anche qui panni stesi e silenzio che non è mai vero silenzio, ma un ronzio continuo, il respiro di una bestia malata.

Non devo socchiudere gli occhi per abituarli al buio, è una notte di luna piena e il suo bagliore intrappola le forme dentro una pellicola biancastra. Mi guardo attorno, cerco la figurina scura di Ciuffo Blu. Scosto le lenzuola che sanno di detersivo del discount, arrivo al limitare del tetto ma non c’è nessuno.

«Me lo sarò immaginato», mormoro, ed è a quel punto che sento una voce alle mie spalle.

«Che vuoi?» Mi volto, me lo ritrovo davanti. Tra noi soltanto un metro di aria rovente. Il ciuffo blu sugli occhi gli arriva quasi al naso. Nonostante il caldo, indossa una felpa con il cappuccio tirato sopra la testa.

«Che vuoi?», ripete. «I miei disegni.»

«Quali disegni?»

«Quelli che ti sei fregato l’altro giorno alla panchina.»

Indico di sotto con il braccio. «Non fare il furbo.» Parlo lentamente per non sbagliare le parole.

«Intendi quegli scarabocchi?», fa l’altro. Solleva il labbro, mi mostra i denti.

«Ridammeli», insisto.

«No. Li hai lasciati là, quindi adesso sono miei.»

«Non fare il furbo, ti ho detto.»

«Sennò?»

«Sennò…»

Alzo un pugno, cerco di colpirlo, ma quello è più veloce, si sposta di lato saltellando come un pugile sottopeso. Continuo a guardarlo e lui non si toglie quel ghigno insopportabile dalla faccia.

«Ti ammazzo!», gli urlo, tanto chi vuoi che mi senta, qui sono tutti morti. Mi lancio contro di lui con le braccia protese, l’altro non se l’aspetta e finiamo subito a terra.

Quando capisco, ho ancora le mani premute contro il suo petto. «Ma che diavolo…», faccio per dire.

Poi il buio mi inghiotte.

Click to listen highlighted text!