Con Camminando, uscito da Lubrina, Davide Sapienza – scrittore e camminatore oltre che curatore editoriale (con Jack London in primis) – sembra aver formalizzato la filosofia che sta alla base di un rapporto – non ancora del tutto esplorato – tra scrittura e movimento del “corpo osservante”. Perché tutti i libri di Davide Sapienza non sono semplicemente dei testi che descrivono un percorso, il cammino, il raggiungimento di una meta, ma meccanismi narrativi che, di volta in volta cambiando il punto di vista, operando piccoli ma importanti cambiamenti di livello, riescono a esaltare il processo di scoperta, di discesa profonda nel proprio sé, dentro il rapporto con il mondo, con la Natura, con il movimento.
E il 23 maggio Davide Sapienza sarà a Milano con Passeggiate d’Autore e Satisfiction per un viaggio a piedi nella città.
Paolo Melissi
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“Camminare è la mente”, scrivi nel tuo Camminando. Cosa intendi con questo, in che modo queste parole sono tue?
Una frase uscita così, come spesso capita, da quel grande e misterioso bacino verbale nascosto da qualche parte nell’etere. Non è “pensata”. Quando si cammina e si ascoltano i passi, si capisce quale straordinario ruolo giocano i nostri piedi: è “l’intelligenza dei piedi”, della quale parlo in un omonimo testo del quale esistono più versioni (quella presente in Camminando è solo l’ultima). Abbiamo davvero presente cosa “sopportano” i nostri piedi? Il loro è un lavoro incredibile e ci consente di deambulare. Avviene in maniera spontanea, non pensata. Come certe frasi. Come quella frase, appunto. Non è fantastico? I piedi hanno una mente tutta loro. La pianta del piede, ci spiega la riflessologia, è un “luogo” straordinario. E’ tutto lì. Io ho “traslato” poeticamente questa idea scientifica e concreta; mi piace prendere “il perché” e trasformarlo in qualcosa che diventa possibilità, dandoci chiavi di lettura. Amo la scienza, ma non mi basta. Io ho la mia visione, ma ciò che scrivo è solo un invito a trovare quella personale di ogni lettore. Siccome camminare è la mente e camminare si fa passo dopo passo, diciamo che anche leggere questo libro richiede di stare attenti a ogni passo.
Che rapporto c’è tra camminare e scrivere?
A questo rapporto ho dato un nome solo dopo avere pubblicato: quando ho iniziato a vedere che i miei libri venivano citati nelle bibliografie sul camminare, allora ho provato a rivederli in un’altra ottica. Io non rileggo i miei libri, una volta stampati. A parte Camminando. Volevo appunto vederlo da un altro punto di vista. É sempre stato per me normale scrivere dopo una bella immersione nel territorio. Ma anche quando sono “nel cuore” del territorio. Lo faccio spesso anche con la macchina fotografica, che è un modo anche di prendere appunti. Del resto ho scelto di vivere in montagna perché ho bisogno di aria, di spazio, di luce, di respiro. Di camminare libero. A volte esco nella foresta di fronte a casa, respiro e tutto diventa più chiaro. Camminare mi aiuta a ripulire i canali percettivi. Io sono della tipologia “scrittore antenna”, dunque come un telescopio che scruta il cielo di notte, meno inquinamento ottico o acustico mi trovo, più colgo. Anche camminando. Adoro le notturne e non solo di scialpinismo, ma anche a piedi sui sentieri. Un’esperienza fantastica.
Nel tuo ultimo libro passi in rassegna diverse “dimensioni” del camminare.
Camminando è un libro particolare, ancora una volta diverso dal precedente, ma questa volta ideato per chiudere un cerchio. Nel 2014, per la prima volta dopo trent’anni di carriera editoriale, ho deciso di prendere tutto il mio passato e metterlo davanti a me, così da rendere il guardare indietro in realtà una consapevole azione per vedere più oltre, in avanti. Volevo celebrare i dieci anni di “I Diari di Rubha Hunish”(2004, prima edizione da BaldiniCastoldiDalai), facendolo uscire in ebook per Feltrinelli Zoom, con importanti varianti (40 fotografie commentate e un lungo inedito per me fondamentale, Il tempo della Terra). Da alcuni anni volevo tornare a Rubha Hunish e ho pensato che farlo a piedi avrebbe permesso a questa “chiusura del cerchio” di darmi spunto per un libro dichiaratamente dedicato al camminare. Mi era stato chiesto da altri editori un libro sul tema, ma volevano la parte saggistica e io allora ho ideato Camminando, che è due libri in uno, per il quale ci voleva un editore particolare: un editore di libri d’arte, come Lubrina, mi sembrava l’ideale. Il concetto è piaciuto e abbiamo lavorato in questa direzione. La prima parte di Camminando è “Con Daimon a Rubha Hunish”, che già dal titolo parla chiaro. Questo diario ha un valore speciale, poiché a differenza del suo genitore (I Diari di Rubha Hunish) adesso ho un pubblico di lettori ai quali volevo parlare e dire come erano stati questi dieci anni e questi milioni di passi. Mi son ripreso lo stile inventato per I Diari (da allora mai più utilizzato, e facente perno sullo scardinamento della cronologia quotidiana per lasciare libertà alla Psiche di raccontare) e ho inserito il Daimon come figura dialogante. In La Strada Era L’Acqua (2010), avevo fatto parlare l’Acqua con gli appunti di viaggio di un canoista. Amo avere queste figure “sciamaniche” nei miei libri. Ho costruito il libro scrivendo sin da tre mesi prima del viaggio scozzese che ne rappresenta il fulcro. È un libro breve, folgorante, da leggere in due ore, illustrato volutamente in b/n con fotografie e disegni. Per realizzarlo dovevo ovviamente fare il viaggio e l’editore ha appoggiato, anche concretamente, la mia visione. La parte due è invece il meglio di ciò che ho scritto sul camminare per importanti testate giornalistiche, oltre a un paio di incursioni narrative e un estratto da La Via dei Silter, volume dedicato a un cammino tracciato da Franco Michieli e me per ERSAF (Ente Regionale Servizi Agricoltura e Foreste) nell’Area Vasta Valgrigna in Lombardia. Un lavoro di due anni. A piedi ovviamente. E dove “camminare è la mente” doveva per forza essere l’assioma. Camminare è un Canto Alto, titolo di questa seconda parte, è anche quello di uno dei migliori scritti che ho pubblicato sul Corriere della Sera (dove scrivo da editorialista per l’edizione di Bergamo e dove ho anche una rubrica settimanale “Sentieri d’autore”). Ecco come Camminando è nato. Con l’intento di dire apertamente, “queste sono le mie idee, la mia visione, che io applico da tanti anni con viaggi a piedi e camminate d’autore.”. Mi piace anche definirlo il mio “ultimo” libro – in entrambi i sensi del termine. Perché per esplorare, il futuro è per forza sempre un’incognita.
Qual è il peso della letteratura di viaggio, intesa nel senso più ampio, nel tuo modo di affrontare la pagina scritta?
Per me quasi nullo. Non ho quasi mai letto “libri di viaggio” capaci di eccitarmi come quelli di letteratura pura – Conrad, Stevenson, Lopez, London, Riel. Preferisco i libri degli esploratori polari (ho anche tradotto Fridtjof Nansen e Scott): lì c’è “la cosa vera” raccontata in un modo che ti pone di fronte a certe inenarrabili potenze della natura. Se devo pensare a un libro di viaggio che mi ha per forza segnato, penso a “Il Milione” di Marco Polo. Il primo libro che lessi a sei anni, donatomi da mio papà. E penso anche al libro del capitano Arseniev che ispirò quel favoloso film di Kurosawa, Dersu Uzala. Ma anche a Il vagabondo delle stelle di Jack London, sul quale sto lavorando. Viaggio per me è ciò che vedo in film come 2001: Odissea nello spazio di Kubrick piuttosto che La sottile linea rossa di Malick, Solaris e Stalker (incluso il libro che lo ha ispirato) di Tarkovski, Atanarjuat di Kunuk, Before Tomorrow di Cousineau e Ivalu. Qualcosa di profondo e inconcepibile all’animo e alla mente, sinché non lo si vive e si capisce che esiste.
Come hai scelto le tue mete, di cui scrivi in Camminando?
Sono le mete a scegliere di palesarsi. E più che mete sono passaggi di un viaggio che non finisce mai. Muovermi e camminare, andare verso “magneti interiori” (quello più potente sta tra la foresta boreale e l’Artico), significa cercare il senso della vita. Per me è centrale ciò che la cultura dominante considera periferico: è infinitamente più ampio del castello in cui si è arroccato il mondo intellettuale e una società molto bloccata nell’immaginario, morbosa, ripiegata su se stessa e i propri tribalismi, come la nostra. Lì si può esplorare anche fisicamente, non solo dentro gli ingannevoli corridoi e i labirinti della mente umana: che senza ossigenazione, fa brutti scherzi. Dunque per Camminando c’era il discorso centrale, il fasciame della mia nave, Rubha Hunish. Poi però questo vascello, doveva essere preparato per la navigazione. Ho scelto accuratamente, escludendo alla fine, come capita spesso, molto materiale che per questa particolare nave, non andava bene. Il mare che doveva affrontare richiedeva altro: leggerezza, piccole dimensioni, capacità di affrontare ogni condizione “climatica”, equipaggio ridotto.
“La vera partenza, il momento del battesimo, avviene con la stesura della prima riga del testo”, scrive David Le Breton ne Il mondo a piedi parlando di Patrick Leigh Fermor. Condividi questa idea?
Partire o camminare o andare nella neve a tracciare nella bianca coltre “in my own way”, non è legato allo scrivere. Preferisco vivere a scrivere. Dunque ogni atto deve essere molto ripulito da sovrastrutture, altrimenti metterei dei paletti alla Psiche precludendole spazi e visuali. Nel caso di Camminando concordo con queste affermazioni: il ritorno a Rubha Hunish è nato quando ho scritto “mancano meno di due mesi”. Ma addirittura nell’attimo in cui, nel maggio 2002, me ne andai da lassù salutando l’Oceano. Non mi era mai capitato prima. Sapevo che avrei messo una prima “impalcatura” al libro e che poi si sarebbe tramutato in qualcosa d’altro: dovevo ancora scegliere cosa recuperare dai taccuini degli ultimi anni che avesse un senso in questo vascello diretto a Rubha Hunish. E’ stato un viaggio letterario affascinante, entusiasmante. Un po’ come, per ragioni diverse, con La Musica della Neve. Se devo riassumere la mia idea di viaggio, sta tutta nell’incipit di Melville in apertura di volume: “sulla mappa non c’è. I luoghi veri non ci sono mai.”
Leggi quando sei in viaggio? Che tipo di letture scegli?
Le letture dipendono sempre dagli impulsi del momento. Può essere una biografia, altre romanzi o saggistica: non ho preferenze. Ma quando cammino per più giorni, difficilmente porto più di un libro. A volte neanche quello. E’ tutto molto “anarchico”. Anzi, come dice il mio amico Klaus, “reclamo il mio spazio di anarchia, quando sono in viaggio”.
Cosa rappresenta per te Rubha Hunish?
Rubha Hunish, punto più settentrionale dell’Isle of Skye in Scozia è per me soprattutto un luogo interiore. Ci sono stato due volte. Non so se ce ne sarà una terza – credo di si. Sin dal primo attimo in cui ci andai nel 2002, quel luogo mi fece percepire certe cose particolari. Sui taccuini di quel giorno di maggio scrissi proprio, “un nome bellissimo per il titolo di un libro”. Due anni dopo usciva I Diari di Rubha Hunish. Piero Gelli, che si entusiasmò del manoscritto, disse che Rubha Hunish era il mio alter ego: la cosa mi colpì. Non ci avevo proprio pensato, lui invece aveva capito uno dei cardini del mio “manifesto letterario”, come definisco io quel libro: ovvero che viaggiare è sempre e per forza scoperta – io non ho mai visto un luogo, ma quel luogo non ha mai visto me. Gelli mi fece capire che in quel territorio avevo proiettato qualcosa di molto profondo del mio mondo psichico. Per arrivarci c’è un sentiero in discesa che immette su questa piccola penisola nascosta alla vista, nella prima ora di cammino. Lo spettacolo dell’Oceano Atlantico, delle creature marine che vedi, è stupefacente. Eppure, nelle ore trascorse lì a parte io e i miei compagni di viaggio, non arrivò nessuno. Ma come risalimmo la scogliera, apparvero altri camminatori. Qualcosa vorrà pur dire, se ti capita due volte a dodici anni di distanza.
Nel libro scrivi anche di un “viaggio” a piedi attraverso Milano.
Che nasce da un’idea di Franco Michieli (con cui ho pubblicato Scrivere la natura per Zanichelli nel 2012). Siamo molto amici, da lui ho appreso tante cose sull’idea di esplorazione e riscrittura interiore dei territori spogliati da un toponimo. Un giorno del 2006 abbiamo iniziato a camminare dall’Abbazia di Chiaravalle per arrivare dopo il tramonto al Monte Stella. Scrissi un reportage per GQ e uno più lungo per Words Without Borders, su invito di Rebecca Solnit. Fu una giornata d’autunno bellissima, direi epica. Quel giorno mi riappacificò con “l’idea” di Milano che mi ero fatto da giovane studente universitario, anni in cui avevo molto amato la metropoli, ma anche imparato a distaccarmene, tanto da decidere di andare a vivere in montagna. Nel 2010 Chiaravalle tornò al centro del mio lavoro quando realizzai, con le fotografie di Andrea Aschedamini L’invisibile canto del silenzio (Educatt Uni Cattolica), con testi poetici scritti a mano, dopo alcuni giorni passati all’Abazzia. Anche camminando. E soprattutto meditando.
Hai dei numi tutelari letterari?
Se intendiamo autori che hanno saputo esplorare in un modo nel quale io mi riconosco, sin da ragazzo, per le nuove visioni e le strade inesplorate della mente, posso parlare di Herman Hesse, Jack London, Herman Melville, Barry Lopez (che è anche maestro e amico), William Blake, Carl Gustav Jung, Henry David Thoreau, da ragazzo Jack Kerouac poi tanti libri singoli come Nelle vene dell’America di Williams, Lo Zen e l’arte della manutenzione della motocicletta di Piersig (per citarne due), Le avventure di Gordon Pym di Poe (che ho avuto la gioia di tradurre per Feltrinelli nel 2013), Gli anelli di Saturno di Sebald. Ma per la mia storia, anche professionale, sono poi fondamentali i musicisti e cantautori che hanno rivoluzionato l’espressività da Bob Dylan a John Trudell, Jim Morrison, soprattutto nelle poesie, piuttosto che Steve Kilbey o Bruce Cockburn. Dimentico sicuramente tante cose, come è normale che sia.
Come lavori ai tuoi libri? Hai un metodo, lavori sugli appunti…
Gli appunti sono sempre preziosi perché costituiscono un serbatoio inesauribile di immagini e avvenimenti, riflessioni dimenticate a livello conscio. Dopo avere scritto le prime pagine in attesa di tornare a Rubha Hunish, ricordai di avere degli appunti dedicati alla Bellezza. Li ritrovai in un taccuino di quattro anni prima. Rielaborati, essi sono un capitolo fondamentale di Camminando. Tengo i taccuini per “pre-vedere” i prossimi passi come uomo e dunque come scrittore. É per me interessante notare che rispetto a dieci anni fa, essi sono diventati più cronachistici, scritti semplicemente per ricordare. Spesso rileggo cose che mi risulta difficile credere di avere partorito io: infatti lo so, è tutto lavoro di inconscio che si connette al mondo. Dove l’inconscio prende il sopravvento mi sento molto vivo. E proprio perché vai a esplorare un universo invisibile e ultraterreno, quello che attiene allo spirito umano. Proprio come certi momenti che vivo camminando in determinate condizioni e ambienti, dove le interferenze si riducono al minimo e allora, nel tempo della Terra, posso ascoltare e registrare ogni “scossa” emotiva, da trasformare in racconto.