Il “romanzo storico” è un genere letterario introdotto nell’Ottocento per inserire, si disse, vicende narrative in un’epoca passata, ricostruendone atmosfera, usi, costumi e mentalità dei personaggi, in modo da farla rivivere al lettore.
Le principali fonti indicano tra i fondatori lo scozzese Walter Scott, autore di Rob Roy (1818) e del più conosciuto Ivanhoe (1819), mentre in Italia è noto come Alessandro Manzoni sia ricorso per I promessi sposi all’espediente del falso ritrovamento di un manoscritto anonimo per raccontare una storia ambientata nella Lombardia del XVII secolo.
Più recentemente da noi ci sono stati Umberto Eco con Il nome della rosa, Antonio Scurati con il pluripremiato M e il milanese Marco Balzano, il quale ha conquistato il secondo posto allo Strega 2018 con Resto qui, un romanzo che narra la vana ribellione degli abitanti di lingua tedesca del piccolo paese altoatesino di Curon (che ha per simbolo il campanile che spunta dal lago artificiale) a quell’annessione all’Italia, da loro mai culturalmente – prima ancora che militarmente – accettata.
Potremmo inserire nel filone anche la sedicente Elena Ferrante, che ripercorre, attraverso la vita delle protagoniste della fortunata saga al femminile L’amica geniale, la storia del Novecento italiano, come farà sul fronte tedesco l’amburghese Carmen Korn in Figlie di una nuova era pubblicato da Fazi.
Ma è soprattutto nella vicina Spagna che il romanzo storico continua ad attrarre scrittori di lignaggio, e la casa editrice milanese Guanda si è fatta carico di tradurre alcuni lavori di Almudena Grandes, recentemente scomparsa nel novembre del 2021, Javier Cercas e Fernando Aramburu.
In Cuore di ghiaccio, pubblicato nel 2007 con il titolo El Corazon helado, il destino di due grandi famiglie dipende dalla diversa natura dei capostipiti, Julio ed Ignacio, legati tra loro da un inesorabile filo che finirà con il riunirli attraverso i nipoti Alvaro e Raquel, cui viene affidata la narrazione della saga. Un romanzo estremamente interessante sia per i numerosi riferimenti storici, che consentono di meglio capire una drammatica pagina del ‘900 non a tutti così nota, sia per il supremo studio delle tante, e non sempre belle, caratteristiche della natura umana, perché non vi è personaggio minore cui la Grandes non riesca a regalare qualche tratto peculiare, nonna Teresa in primis. Come in tutte le grandi saghe di sapore storico (anche nell’indiano Il Dio delle piccole cose di Roy Arundhati succedeva così), occorre armarsi di iniziale pazienza tra i tanti nomi e i salti di cronologia, ma a poco a poco si entra in quel mondo, in quel Paese e in quel periodo.
Ne Il ragazzo che leggeva Verne, pubblicato nel 2012 con il titolo El lector de Julio Verne, l’insorgere del franchismo viene descritto attraverso gli occhi di un bambino, il piccolo Nino, detto “scricciolo” per via della corporatura minuta, figlio di un modesto ufficiale della Guardia Civil di caserma in un paesino andaluso dimenticato da Dio e dagli uomini, ma non dagli orrori di una dittatura feroce. La conoscenza casuale con l’adulto “Pepe il portoghese” gli cambierà la vita. Anche qui l’inizio è un po’ stentato, troppi nomi ed episodi minori che la scrittura particolare della Grandes, composta di lunghe proposizioni prive di virgole, non aiuta a fare immediatamente propri, ma a un certo punto il romanzo decolla e il finale risulta commovente con una giusta dose di apprezzabile epicità. “Mi mancherai molto Pepe”, si chiude il capitolo III, “Anche tu compagno” ma su quell’ultima parola la voce gli si incrinò, ed il capitolo IV (l’ultimo) inizia con “Passarono altri undici anni prima che qualcuno mi chiamasse di nuovo compagno”. Una storia di resistenza, lotta e solidarietà popolare che ci restituisce anche il valore di una parola, compagno, che se in passato è forse stata troppo abusata, oggi non può non farci sentire la sua sentimentale, mancanza, perché è una parola nella quale troviamo racchiusa una parte importante del “secolo breve”, per usare la nota definizione dello storico inglese Eric Hobsbawm.
Le leggi della frontiera, pubblicato sempre nel 2012 con il tiolo Las leyes de la frontera, narra l’incontro, accidentale ma decisivo dell’adolescente Gafitas, cresciuto nella zona borghese di Girona, con Zarco e Tere che abitano nelle baracche oltre il fiume che divide in due la città. La storia centrale del romanzo, scritto a flash back in forma di immaginaria intervista a Gafitas nel frattempo diventato uno stimato avvocato, si svolge nell’estate del 1978, in quel complicato trapasso storico della fine della Spagna franchista, e racconta un’unione destinata al fallimento. Quella di due mondi nati separati da un fiume che determinerà i diversi destini dei tre protagonisti. Quel fiume, dicono le note della quarta di copertina, costituiva per chi abitava dall’altra parte, una frontiera sociale ed etica. Gafitas a un certo punto aveva scavalcato quella frontiera “Per cominciare una nuova vita, come si dice, perché volevo essere un altro, reinventarmi, cambiare pelle, smettere di essere un serpente e diventare un drago, come gli eroi di Liang Shan Po. I miei vecchi amici e la banda di Zarco vivevano in due mondi del tutto diversi, un po’ come me e i miei genitori, o come il mio vecchio io e il mio nuovo io; Zarco e io vivevamo molto vicini e molto lontani, separati da un abisso”. Ma il suo amico Zarco un giorno gli aveva detto: “Sparisci dimenticati della banda, torna alla tua famiglia, torna a studiare, torna alla tua vita di prima. Non sei come noi. E poi noi non abbiamo scelta, abbiamo solo questa vita, mentre tu ne hai un’altra”, e con l’aiuto del padre, Gafitas lo aveva fatto, ed era ritornato dall’altra parte: la sua. Una storia cruda di amicizia e lealtà, di amori e tradimenti, di ingenuità e malizia, di criminalità giovanile e ingiustizie, ma è soprattutto la storia di un percorso individuale straordinario. Quello del protagonista Gafitas, anche se trattasi di personaggio non privo di difetti e di colpe e che è forse quello che alla fine ne esce meno bene dell’intero terzetto. La narrativa di Cercas è diversa da quella della Grandes, perché diversa è stata la sua storia personale. Figlio di un veterinario di campagna e cugino di primo grado del politico Alejandro Cercas, Javier Cercas è nato a Ibahernando (un paesino della provincia di Caceres in Estremadura) e si definisce “un catalano che non riesce a smettere di essere dell’Estremadura”, ma sin da piccolo si trasferì con la famiglia a Girona, dove ha potuto introitare quel mondo giovanile che ha così ben saputo descrivere. E quando fa dire a Gafitas la frase: “Poi negli anni Ottanta e Novanta, cambiò tutto. Secondo me a produrre il cambiamento furono due cose: la droga e la delinquenza giovanile”, è probabile che racconti quello che ha direttamente vissuto lui, da ragazzo che stava dall’altra parte del fiume.
Patria, pubblicato nel 2016, è la storia di due famiglie che vivono in un piccolo centro basco unite da una grande amicizia; i due uomini passano gran parte del loro tempo libero insieme, pedalando in bicicletta o giocando a carte; le due donne si confidano su tutto; una delle figlie accompagna l’altra a Londra per un aborto clandestino, fino a quando Txato, che ha una piccola impresa di trasporti, incomincia a essere taglieggiato dall’ETA. Le cose vanno sempre peggio finché l’uomo viene ucciso (siamo all’inizio del libro). Questo fatto erge un muro fra le due famiglie, soprattutto perché il figlio maggiore dell’altra è entrato in clandestinità nella lotta armata, e vi è il sospetto che sia implicato nell’omicidio, forse addirittura come esecutore. Nelle due famiglie ciascuno reagisce come può a quello che è accaduto, e se Nerea, figlia di Txato dice: “a me piacerebbe che arrivasse il giorno in cui, guardandomi allo specchio, non vedrò soltanto la faccia di una persona ridotta a essere una vittima”; la madre della famiglia opposta dice alla moglie di Txato: “Non smuovere quelle acque, Bittori, anche noi abbiamo sofferto e soffriamo”. Nato a San Sebastián nel 1959, Aramburu ha studiato Filologia ispanica all’Università di Saragozza e negli anni Novanta si è trasferito in Germania per insegnare spagnolo. Dal 2009 ha abbandonato la docenza per dedicarsi alla scrittura e alle collaborazioni giornalistiche, e rigorosamente basco per origine e formazione, ha vissuto il dramma lacerante che per anni ha dilaniato le famiglie del luogo durante la lunghissima e sanguinosa guerriglia indipendentista dell’ETA.
Tornando all’Italia, qualche anno fa Melania Mazzucco ha pubblicato La lunga attesa dell’angelo, un libro di oltre 500 pagine sulla vita romanzata di Tintoretto nella Venezia del ‘500 e che tuttavia ci pone un interrogativo, ovvero se possa rientrare nella categoria del romanzo un libro che racconta la vita di un personaggio realmente esistito, o se questo non rientri invece nel diverso genere della biografia.
Secondo il filosofo tedesco Hegel il romanzo è “il genere dell’epopea borghese, che ha sostituito l’epos” e l’epica è un po’ come la Rivoluzione, che per il russo Michail Bakunin era “per tre quarti fantasia e per un quarto realtà”.
Potremmo concludere che anche il racconto di un personaggio realmente esistito può tramutarsi in romanzo, purché lasci spazio a quei “tre quarti di fantasia” di cui parlava Bakunin, come a mio parere è avvenuto in Memorie di Adriano di Margherita Yourcenar e Limonov del francese Emmanuel Carrrère, anche perché, nel secondo caso, è stato lo stesso Limonov a dichiarare che la gran parte di quanto si legge sarebbe frutto della fantasia del suo autore.
Ma la domanda finale è: c’è da fidarsi di un “personaggio” come Limonov?