Soluzioni sbrigative: “Lei non sembrò in alcun modo offesa, anzi, riprese a strusciargli la mano tra le gambe; poi, come stanca di quel gioco, si chinò di scatto – una marionetta dai fili marci – gli aprì la patta e prese il suo cazzo in bocca. Tutta l’operazione non durò che due minuti”.
Una nuova casa: “La prima notte al bordello. Fui spedita in una camera occupata già da due ragazze: dormivano su un letto a castello, quando cominciai a spogliarmi mi fissarono il cazzo e le gambe e scoppiarono a ridere. Mi appallottolai e tappai sotto il lenzuolo. Era così morbido che pensai di nuovo alla pelle di Maria, alla pelle delle donne, di tutte le donne del mondo che erano passate di là, strusciandosi sulla stoffa, stirandone le pieghe, lasciando frammenti d’epidermide sul tessuto”.
Teorie sull’amore: “Certe volte essere innamorati di qualcuno pare essere il risultato di un buon contratto. Parlo da notaio, come mi riesce naturale. Un genio sbuca fuori dalla sua lampada, guarda la coppia che ha davanti e la esorta a esprimere un desiderio. La cosa più ovvia è che rispondano: stare insieme e amarsi. Il genio compila il contratto con tanto di clausole. La prima clausola annota: stare insieme, amandosi ma invecchiando, allora la coppia corregge il tiro e dice: stare insieme, amarsi e restare giovani. La seconda clausola dice: stare insieme, amarsi e restare giovani, ma infelici, perché stare insieme e amarsi non significa essere sempre felici. La coppia, di nuovo, modifica il desiderio: essere felici insieme, amarsi, restare giovani. Sembra tutto perfetto, no? Si legge e si rilegge il contratto mille volte, eppure sfugge una minuscola invisibile postilla: la coppia non ha pensato al tempo. Avrebbero dovuto dire “per sempre”, ma a discapito di cosa? Dello stare insieme, dell’essere giovani o dell’essere felici? E il denaro? Hanno dimenticato anche quello”.
È in libreria Maleuforia di Deborah D’Addetta, (Giulio Perrone Editore 2024, pp. 352, € 20).
Deborah D’Addetta fa parte del collettivo «Spaghetti Writers» per cui scrive racconti ed è redattrice, recensisce libri per «Critica Letteraria» ed è contributor di varie testate tra cui «Italy Segreta», «Mar dei Sargassi», «City News – Napoli Today». Molti suoi racconti e scritti di natura saggistica sono stati pubblicati su riviste letterarie. Vince il premio letterario “L’Avvelenata con Blam” nel 2021.
La maleuforia è un sentimento che trasforma l’incompleto e l’insoddisfatto, trovando felicità nell’inquietudine. È una disposizione dell’animo che, seppur dolente, consente di affrontare dissidi interiori e crisi identitarie. Raffaele De Palma, adolescente negli anni Ottanta e Novanta a Napoli, fugge dalle angherie della nonna trovando rifugio nel bordello di Donna Sofia. Lì, tra prostitute e femminielli, riceve insegnamenti che plasmano la sua educazione sessuale e umana. Scopre il proprio corpo e adotta un “veronome”, diventando Lèmon, una ragazza dal nome fluido.
Maleuforia di Deborah D’Addetta è un romanzo di formazione con toni erotici e irriverenti, che mescola italiano e dialetto napoletano. Ispirato al linguaggio di Peppe Lanzetta e alla poetica di Giuseppe Patroni Griffi, il libro si immerge nella Napoli crepuscolare per esplorarne ombre, turbamenti e passioni nascoste.
Un libro di sesso, d’amore e di passioni.
Carlo Tortarolo
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Maria non si fece vedere per un bel pezzo, fu Linda la mia bussola per le prime settimane: non solo mi insegnò a depilarmi con la schiuma da barba o la ceretta in perline, ma anche a sistemare i capelli – a quel punto erano ancora una zazzera indegna nascosta sotto i foulard o tirata indietro con la brillantina – mentre la guardavo incantata arricciarsi i suoi col ferro caldo, o farli drittidritti come spaghetti grazie a quadrati di carta stagnola. Poi un giorno chiese come volessi chiamarmi.
«Non aggio capito».
Ero nella sua camera, lei portava un vestitino su cui parevano esserci tutti i fiori del cimitero, con le maniche a sbuffo, le gambe depilate e i capelli fulvi stretti in una codina discreta. Si stava applicando uno strato di ombretto azzurro che faceva sembrare i suoi occhi due schegge d’acciaio.
«Beh, noi tutte abbiamo un nome d’arte, non ci hai fatto caso? Io non sono mica nata Linda? La mia mamma mi ha battezzata come Enrico».
«Che nome brutto».
«Sì, grazie tante! Sarà bello Raffaele!».
Non ebbi niente da protestare.
«E dunque?».
«Che ne so, ci devo pensà. Dopo me lo devo tenere tutta la vita».
«Allora sbrigati, è strano chiamarti Raffaele, non è il tuo veronome».
Presi a riflettere: che voleva dire veronome? Mamma Giulia mi aveva battezzata Raffaele, i miei amici mi chiamano Filù o Rafè, nonna Porzia pur di non pronunciarlo si ingoiava la lingua e Imma nemmeno parlava. Io come pensavo a me stessa? Già dire me stessa causava una disarmonia, uno sfasamento tra superfici laddove nemmeno ero consapevole ci fossero più superfici.
Osservando le ragazze al bordello avevo cominciato a capire che non bastava mettersi una parrucca o due limoni nel reggiseno per essere donna, per sentirsi donna. Forse significava provare dolore. Le mie compagne di stanza mi dicevano, sei fortunato tu che non soffri, mentre si torcevano a letto tenendosi la pancia o abbracciando budelli pieni di acqua bollente. Pulendo stanze e bagni raccattavo fazzoletti, stracci sporchi di sangue, assorbenti arrotolati in triangoli di carta igienica e imparavo – sapevo ormai a memoria quando sarebbe arrivato il ciclo a questa o quella, ero spettatrice privilegiata di mal di testa, mal di reni, di tette, di cosce, di culo, mali di tutti i tipi, talmente tanti che ne volevo anche io qualcuno per me, per capire come ci si sentisse – e allo specchio mi toccavo la testa, la schiena, il petto, il cazzo, e pensavo, ma com’è che non mi fa male niente a me? Sono viva o no?
«Allora, hai pensato abbastanza?» domandò Linda, scuotendo i miei pensieri.
«Eh, ci devo pensà, ho detto. Tu pecché hai scelto proprio Linda?».
Socchiuse la bocca per applicare il mascara.
«È il nome di una canzone che una volta ho sentito in radio».
«Che canzone?».
«Non so, una che parlava di questa ragazza che ballava e aveva gli occhi azzurri. Mi sembrava giusta per me».
Ammutolii. Io non ce l’avevo una canzone giusta per me.